Corte di Cassazione, sez. 3, sentenza n. 20391 dell’11 ottobre 2016
L’accreditamento è un provvedimento amministrativo, che abilita la struttura ad inserirsi nel servizio sanitario pubblico (la legge lo definisce infatti accreditamento istituzionale), e pertanto è riconducibile (conformemente alla lettura giurisprudenziale del complessivo sistema) al tema della concessione (in questo senso v. anche Cass. n.12393 del 2014).
Peraltro, come è usuale nel settore delle concessioni (cfr. la già citata S.U. 20 giugno 2012 n. 10149), la pubblica amministrazione non si arresta al livello provvedimentale, ma percorre una sequenza gestionale in cui dall’esercizio dello jus imperii passa a un accessorio esercizio del suo jusprivatorum, stipulando un apposito negozio con il soggetto cui ha conferito la concessione per interferire, seppure su un piano ora tendenzialmente paritario, nella gestione della concessione stessa.
A fronte di un requisito di forma imposto dalla legge a pena di nullità, non sarebbe quindi idoneo alla conclusione di un valido contratto il semplice decreto dirigenziale di attribuzione del budget annuale, a cui è seguita l’esecuzione delle prestazioni sanitarie da parte della Casa di cura.
In caso di prestazioni sanitarie erogate da strutture private preaccreditate con lo Stato in favore degli aventi diritto, il diritto della medesima struttura privata a vedersi corrispondere dal soggetto pubblico gli interessi di mora nella misura prevista dal d.lgs. n. 231 del 2002 sorge soltanto qualora tra l’Ente pubblico competente e la struttura sia stato concluso un contratto, avente forma scritta a pena di nullità, in data successiva all’8 agosto 2002, con il quale l’Ente assume l’obbligo nei confronti della struttura privata di retribuire alle condizioni e nei limiti ivi indicati , determinate prestazioni di cura da essa erogate.
la sentenza