Corte dei Conti, sezione giurisdizionale per la Regione Lombardia, sentenza n. 222 del 20 dicembre 2016
Con l’espressione danno da concorrenza, nella giurisprudenza di questa Corte, si indica il danno subito dall’Amministrazione quando un contratto venga stipulato in violazione delle regole di evidenza pubblica che impongono il previo esperimento di una gara al fine di garantire la possibilità di scegliere, nell’ambito di un adeguato numero di imprese partecipanti, la migliore offerta conseguibile per la acquisizione di beni e servizi oggetto della gara.
La locuzione è stata mutuata dalla giurisprudenza amministrativa che, peraltro, con tale espressione indica il danno risarcibile per equivalente in favore di un’impresa che non abbia avuto la possibilità di aggiudicarsi un contratto (si parla, infatti, di perdita di chance), o perché illegittimamente esclusa da una gara o perché, altrettanto illegittimamente, la gara non sia stata neppure espletata; danno che – ove ne ricorrano i presupposti – viene determinato in via equitativa, ai sensi dell’art. 1226 c.c., in una misura variabile tra il 5% e il 10% del valore del contratto, che costituisce – di regola – l’utile che l’impresa avrebbe potuto conseguire dall’esecuzione del contratto stesso.
La giurisprudenza contabile ha ritenuto di poter utilizzare i medesimi criteri della giustizia amministrativa per la quantificazione del danno alla concorrenza, derivante – come si è detto – dall’illegittima omissione della gara pubblica e addebitabile al soggetto responsabile, per dolo o colpa grave, di tale omissione.
Va ancora precisato che tale forma di danno rientra, senza dubbio, nella categoria del vero e proprio danno patrimoniale, non essendo altro che la traduzione in termini economici del nocumento subito dall’amministrazione per non aver conseguito il risparmio di spesa che sarebbe stato possibile ottenere mediante il confronto in gara tra più offerte.
Fin qui il condiviso approdo della giurisprudenza contabile, che – fermo restando il concetto del danno alla concorrenza, definito in alcuni casi come “danno da differenza” – si è, peraltro, divisa sulla problematica della esistenza e della quantificazione del danno in concreto.
Tanto chiarito, osserva il Collegio che il danno alla concorrenza, non diversamente da qualunque altra tipologia di danno patrimoniale, non può ritenersi sussistente “in re ipsa” per il solo fatto, cioè, che sia stato illegittimamente pretermesso il confronto tra più offerte (cfr. da ultimo Sezione Lazio, sentenza n. 293/2016 del 20 ottobre 2016; I Sezione Centrale nn. 263/2016 e 15/2015 rispettivamente del 19 luglio 2016 e dell’8 gennaio 2015).
Ed è ovvio che, solo in ipotesi di dimostrata esistenza del danno, potrà arsi ricorso alla liquidazione con valutazione equitativa, che – come è ben noto – è prevista dall’art. 1226 c.c. proprio per sopperire alla impossibilità o, comunque, alla particolare difficoltà di quantificare un danno di cui sia, però, certa l’esistenza.
È doveroso anche precisare che non appare appropriato trasporre nel giudizio di responsabilità i criteri elaborati dalla giustizia amministrativa per la quantificazione del danno subito dall’impresa illegittimamente esclusa da una gara.
In definitiva, osserva il Collegio che – esclusa la sussistenza “in re ipsa” del danno alla concorrenza – la mera trasposizione dei criteri di quantificazione seguiti dal giudice amministrativo, e, comunque, la mancanza dell’indicazione, da parte della Procura attrice, di almeno uno tra i vari, concreti elementi di prova della dannosità della condotta contestata al convenuto, necessari al fine di poter pervenire alla legittima applicazione dell’evocato criterio di valutazione equitativa, si manifesta quale evidenza di una non superabile carenza probatoria, in ordine all’an e al quantum del danno ipotizzato.
la sentenza