Consiglio di Stato, sentenza n. 1657 del 10 aprile 2017
In relazione a tale quadro normativo, la giurisprudenza formatasi nel corso degli anni ha fornito chiarimenti sul metodo e sulle modalità di valutazione dei tentativi di infiltrazione mafiosa e ha individuato ulteriori elementi che l’autorità prefettizia deve considerare ai fini dell’adozione della misura interdittiva.
In primo luogo, la giurisprudenza amministrativa ha rilevato che la valutazione del tentativo di infiltrazione mafiosa deve avvenire nella logica delle caratteristiche fattuali e sociologiche del fenomeno mafioso.
Tale fenomeno non sempre si concretizza in fatti univocamente illeciti o in accertate responsabilità penali e spesso si ferma sulla soglia dell’intimidazione, dell’influenza e del condizionamento latente di attività economiche formalmente lecite, per cui l’informazione interdittiva non può e non deve necessariamente fondarsi su prove o collegarsi ad accertamenti in sede penale di carattere definitivo e certo sull’esistenza della contiguità dell’impresa con organizzazione malavitose “ma può essere sorretta da elementi sintomatici e indiziari da cui emergano sufficienti elementi del pericolo che possa verificarsi il tentativo di ingerenza nell’attività imprenditoriale della criminalità organizzata” (Cons. Stato, sez. III, 19 gennaio 2012, nr. 254; id. 30 gennaio 2012, nr. 444; id. 23 luglio 2012, nr. 4208; id., 5 settembre 2012, nr. 4708; id., sez. VI, 15 giugno 2011, nr. 3647).
D’altronde, non trattandosi di provvedimenti nemmeno latamente sanzionatori, è estranea al sistema delle informative antimafia “qualsiasi logica penalistica di certezza probatoria raggiunta al di là del ragionevole dubbio” (Cons. Stato, sez. III, 23 giugno 2016, nr. 3505).
Il rischio di inquinamento mafioso deve infatti essere valutato in base al consolidato criterio del “più probabile che non”, “alla luce di una regola di giudizio, cioè, che ben può essere integrata da dati di comune esperienza, evincibili dall’osservazione dei fenomeni sociali, qual è, anzitutto, anche quello mafioso” (Cons. Stato, sez. III, 3 maggio 2016, nr. 1747; id., 23 giugno 2016, nr. 3505; id., 19 gennaio 2012, nr. 254).
Per quel che concerne poi gli elementi che l’autorità prefettizia deve considerare ai fini dell’adozione della misura interdittiva, la giurisprudenza ha ben evidenziato che “gli elementi di inquinamento mafioso, ben lungi dal costituire un numerus clausus, assumono forme e caratteristiche diverse secondo i tempi, i luoghi e le persone e sfuggono, per l’insidiosa pervasività e mutevolezza, anzitutto sul piano sociale, del fenomeno mafioso, ad un preciso inquadramento”, per cui “quello voluto dal legislatore, ben consapevole di questo, è (…) un catalogo aperto di situazioni sintomatiche del condizionamento mafioso” (Cons. Stato, sez. III, 3 maggio 2016, nr. 1747).
Ulteriori circostanze, non tipizzate dal legislatore, sono state quindi individuate dalla giurisprudenza, che ha predisposto una sorta di “catalogo” delle situazioni-spia dell’infiltrazione, comprendente:
a) i provvedimenti “sfavorevoli” del giudice penale;
b) le sentenze di proscioglimento o di assoluzione;
c) la proposta o il provvedimento di applicazione di taluna delle misure di prevenzione previste dallo stesso d.lgs. nr. 159/2011;
d) i rapporti di parentela;
e) i contatti o i rapporti di frequentazione, conoscenza, colleganza, amicizia;
f) le vicende anomale nella formale struttura dell’impresa;
g) le vicende anomale nella concreta gestione dell’impresa;
h) la condivisione di un sistema di illegalità, volto ad ottenere i relativi “benefici”;
i) l’inserimento in un contesto di illegalità o di abusivismo, in assenza di iniziative volte al ripristino della legalità (cfr. Cons. Stato, sez. III, 3 maggio 2016, nr. 1747).
Tali elementi non vanno d’altronde considerati separatamente, “dovendosi piuttosto stabilire se sia configurabile un quadro indiziario complessivo, dal quale possa ritenersi attendibile l’esistenza di un condizionamento da parte della criminalità” (Cons. Stato, sez. III, 19 gennaio 2012, nr. 254; id., 23 luglio 2012, nr. 4208).
Infine deve richiamarsi il più recente indirizzo della Sezione secondo cui, se è vero che l’acquisizione delle informazioni antimafia è obbligatoria per i contratti pubblici di importo superiore alla soglia stabilita dall’art. 83, comma 3, lettera e), del d.lgs. nr. 159 del 2011 (e, in precedenza, dall’art. 1, comma 2, lettera e), del d.P.R. nr. 252 del 1998), resta comunque in facoltà della stazione appaltante, anche indipendentemente da specifiche previsioni espresse contenute nel bando, di richiedere le dette informazioni anche per contratti di valore inferiore alle succitate soglie (cfr. Cons. Stato, sez. III, 21 luglio 2014, nr. 3874).