Corte di Cassazione, sentenza n. 9883 del 19 aprile 2017
Nello scrutinio della fattispecie concreta è dunque mancato il doveroso richiamo anche alle clausole generali della correttezza e buona fede
di guisa che l’intervallo temporale fra l’intimazione del licenziamento disciplinare e il fatto contestato al lavoratore assume rilievo in quanto rivelatore di una implicita valutazione, da parte del datore, di scarsa gravità dei fatti contestati ovvero di una sopravvenuta mancanza di interesse del datore di lavoro all’esercizio della facoltà di recesso
. Sotto altro versante, la sentenza impugnata palesa innegabili carenze motivazionali laddove omette di conferire rilievo alle circostanze – pur tempestivamente dedotte dalla società sin dalla memoria di costituzione di primo grado, come specificamente riportato nel presente ricorso per il n. r.g. 27134/2014 principio di autosufficienza – decisive per il giudizio, perchè attinenti alla adozione da parte datoriale del provvedimento di sospensione cautelare del dipendente con diritto alla retribuzione, disposta con decorrenza 5/4/2006, allorquando gli accertamenti ispettivi risultavano ancora in corso. Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, invero, l’intervallo temporale, fra l’intimazione del licenziamento disciplinare e il fatto contestato al lavoratore, assume rilievo in quanto rilevatore di una mancanza di interesse del datore di lavoro all’esercizio della facoltà di recesso; con la conseguenza che, nonostante il differimento di questo, la ritenuta incompatibilità degli addebiti con la prosecuzione del rapporto, può essere desunta da misure cautelari (come la sospensione) adottate in detto intervallo dal datore di lavoro, giacché tali misure – specialmente se l’adozione di esse sia prevista dalla disciplina collettiva del rapporto – dimostrano la permanente volontà datoriale di irrogare (eventualmente) la sanzione del licenziamento (così, ex plurimis, Cass.19/8/2004 n.16291, Cass. 2/2/2009 n. 2580, cui adde Cass. 19/6/2014 n. 13955).