Il danno da ritardata assunzione, può essere pari a 2/3 del trattamento retributivo e previdenziale non goduto.

Consiglio di Stato, sentenza n. 1262 del 1 marzo 2018

L’obbligo di retribuzione della prestazione lavorativa sorge con il perfezionamento degli atti costitutivi del rapporto di impiego ed in presenza dell’effettivo svolgimento della prestazione. In assenza del provvedimento costitutivo del rapporto di lavoro e dei conseguenti adempimenti contabili per il pagamento degli assegni con carattere di fissità, nessuna pretesa può essere validamente avanzata per la remunerazione di prestazioni non rese. Infatti, la “restitutio in integrum” agli effetti economici spetta al pubblico dipendente soltanto nei casi in cui vi sia stata una sentenza che accerti l’illegittima interruzione di un rapporto di lavoro già in atto e non anche nell’ipotesi in cui il giudicato accerti l’illegittimità del diniego di costituzione di tale rapporto (cfr., Cons. St., sez.VI, 28 marzo 1998, n. 365).
Pertanto, il danno non può essere pari all’integrale ammontare del trattamento economico e previdenziale non goduto nel periodo intercorrente tra la data in cui la ricorrente avrebbe dovuto essere assunta in servizio e quella di effettiva costituzione del rapporto, per effetto di una virtuale ricostruzione della posizione economica e previdenziale; infatti, ciò che non può essere ottenuto integralmente con l’azione di adempimento e di “restitutio in integrum”, non può certo essere ottenuto, in via obliqua, con l’azione di risarcimento del danno per equivalente.
Come già affermato dalla giurisprudenza (cfr. Cons. St., sez. V, 30 giugno 2011, n. 3934), in sede di quantificazione per equivalente del pregiudizio patito dal ricorrente in ipotesi di omessa o ritardata assunzione per illegittima esclusione da un pubblico concorso, il danno non si identifica in astratto nella mancata erogazione della retribuzione e della contribuzione (elementi che comporterebbero una vera e propria “restitutio in integrum” e che possono rilevare soltanto sotto il profilo della responsabilità contrattuale), occorrendo invece caso per caso individuare l’entità dei pregiudizi di tipo patrimoniale e non patrimoniale che trovino causa nella condotta illecita del datore di lavoro alla stregua dell’art. 1223, cod. civ..
Quanto ai pregiudizi patrimoniali, residua certamente un danno da mancato guadagno, che ha solo come base di calcolo l’ammontare del trattamento economico e previdenziale non goduto e che, non identificandosi con esso, deve essere sottoposto ad una percentuale di abbattimento in considerazione del fatto che il danneggiato ha comunque potuto dirottare le sue energie lavorative in altre occasioni, anche solo potenziali, di guadagno e ha potuto risparmiare, nel contempo, le energie fisico-psichiche che il lavoro, che le è stato illegittimamente negato dall’Amministrazione resistente, avrebbe comunque implicato. Tale percentuale di abbattimento non può che essere quantificata equitativamente ai sensi dell’art. 1226, cod. civ..
Nel caso di specie, il Collegio stima adeguato individuare tale frazione in un terzo della somma derivante dal calcolo del trattamento economico e previdenziale di base non goduto nel periodo intercorrente tra la data in cui la ricorrente avrebbe dovuto essere assunta in servizio e quella di effettiva costituzione del rapporto, per effetto della ricostruzione della posizione economica e previdenziale della medesima.
Conseguentemente, la somma da liquidare a titolo risarcitorio è pari ai due terzi del trattamento economico di base non fruito, con esclusione dal computo di tutte le ulteriori voci retributive diverse dallo stipendio basilare; ciò in quanto tutte tali voci, essenzialmente correlate direttamente o indirettamente all’effettivo svolgimento della prestazione lavorativa che in effetti non vi è stata, non possono porsi a base della liquidazione equitativa del risarcimento cui qui si procede.

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