Corte di Cassazione, sentenza n. 4986 del 2 marzo 2018
(per una trattazione più organica in materia di demansionamento, consulta il seguente articolo
Dell’art. 2087 cod. civ. la Suprema Corte ha da tempo fornito un’interpretazione estensiva, costituzionalmente orientata al rispetto di beni essenziali e primari quali sono il diritto alla salute, la dignità umana e i diritti inviolabili della persona, tutelati dagli artt. 32, 41 e 2 Cost.. L’ambito di applicazione della norma è stato, quindi, ritenuto non circoscritto al solo campo della prevenzione antinfortunistica in senso stretto, perché si è evidenziato che l’obbligo posto a carico del datore di lavoro di tutelare l’integrità psicofisica e la personalità morale del prestatore gli impone non solo di astenersi da ogni condotta che sia finalizzata a ledere detti beni, ma anche di impedire che nell’ambiente di lavoro si possano verificare situazioni idonee a mettere in pericolo la salute e la dignità della persona ( Cass. 10.3.1995 n. 7768, Cass. 8.1.2000 n. 143 e fra le più recenti Cass. 19.2.2016 n. 3291).
Occorre, poi, evidenziare che non di rado si può fare applicazione congiunta dell’art. 2087 e dell’art. 2103 cod. civ. o delle altre disposizioni speciali che tutelano la professionalità del lavoratore, come accade ogniqualvolta il demansionamento produca anche una lesione dell’integrità psico-fisica del lavoratore (all’art. 2087 cod. civ. si riferisce in motivazione Cass. S.U. 24.3.2006 n. 6572), ma in dette ipotesi, affinché possa essere configurata una responsabilità del datore di lavoro per i danni che il prestatore assume di avere subito, è necessario che lo ius variandi non sia stato correttamente esercitato dal datore e, quindi, che l’assegnazione di mansioni diverse da quelle espletate in passato, possa essere ritenuta dequalificante, secondo la normativa legale e contrattuale che disciplina il rapporto. In alternativa, ove l’atto risulti essere conforme alla disciplina che regola l’assegnazione delle mansioni, una pretesa risarcitoria potrà essere fondata sull’art. 2087 cod. civ. solo qualora il diritto sia stato esercitato con finalità vessatorie o, comunque, abusando del diritto, il che si verifica allorquando l’esercizio avvenga « con modalità non necessarie ed irrispettose del dovere di correttezza e buona fede, causando uno sproporzionato ed ingiustificato sacrificio della controparte ed al fine di conseguire risultati diversi ed ulteriori rispetto a quelli per i quali quei poteri o facoltà sono attribuiti» ( Cass. 7.5.2013 n. 10568).
Venendo, poi, al tema specifico del demansionamento nell’ambito della dirigenza sanitaria alle dipendenze di amministrazioni pubbliche, occorre innanzitutto considerare che l’art. 19 del d.lgs. n. 165 del 2001 esclude l’applicabilità agli incarichi dirigenziali dell’art. 2103 cod. civ. e detta esclusione è stata ribadita per i dirigenti medici dalle parti collettive ( art. 27 CCNL 8.6.2000 per la dirigenza medica del servizio sanitario nazionale).
Discende dal principio di diritto enunciato, che il dirigente medico non ha un diritto soggettivo ad effettuare interventi che siano qualitativamente e quantitativamente costanti nel tempo, sicché lo stesso non può opporsi né a scelte aziendali che siano finalizzate a tutelare gli interessi collettivi richiamati dall’art. 1 del d.lgs. n. 502 del 1992, né alle direttive impartite dal responsabile della struttura che perseguano l’obiettivo di garantire efficienza e qualità del servizio da assicurare al paziente.
Ciò non significa che la professionalità del dirigente medico non riceva alcuna tutela, perché innanzitutto deve essere garantito al dirigente di svolgere un’attività che sia correlata alla professionalità posseduta, sicché il dirigente stesso non può essere posto in una condizione di sostanziale inattività né assegnato a funzioni che richiedano un bagaglio di conoscenze specialistiche diverso da quello posseduto e allo stesso non assimilabile, sulla base delle corrispondenze stabilite a livello regolamentare. Inoltre, poiché, come si è detto, il datore di lavoro è tenuto al rispetto dei principi di correttezza e buona fede, l’esercizio del diritto non può essere ispirato da finalità vessatorie né avvenire causando uno sproporzionato ed ingiustificato sacrificio della controparte, al fine di conseguire risultati diversi ed ulteriori rispetto a quelli per i quali il diritto medesimo è attribuito.
La decisione gravata va, pertanto, cassata secondo il principio di diritto di seguito enunciato: « Nell’impiego pubblico contrattualizzato non trova applicazione per la dirigenza medica l’art. 2103 cod. civ., perché gli incarichi dirigenziali, conferiti nel rispetto delle corrispondenze previste dalle fonti regolamentari, in quanto ritenuti dal legislatore equivalenti esprimono la medesima professionalità. Il dirigente medico non ha un diritto soggettivo a svolgere interventi qualitativamente e quantitativamente equivalenti a quelli curati da altri dirigenti della medesima struttura né a quelli svolti in passato, fermo restando che lo stesso non può essere lasciato in una condizione di sostanziale inattività né assegnato a svolgere funzioni che esulino del tutto dal bagaglio di conoscenze specialistiche posseduto. Il datore di lavoro nell’assegnazione degli incarichi e nella distribuzione del lavoro fra i dirigenti medici è tenuto al rispetto delle regole di correttezza e buona fede, sicché il diritto deve essere esercitato tenendo conto delle esigenze superiori di tutela della salute dei cittadini e non può essere finalizzato a mortificare la personalità del dirigente né a realizzare risultati diversi ed ulteriori rispetto a quelli per i quali il potere è attribuito».