Se decorrono 30 giorni dalla diffida (anche se non formalmete qualificata tale), scatta il presupposto per il reato di omissione di atti d’ufficio

Corte di Cassazione Penale, sentenza n. 17536 dep 18 aprile 2018

Si rileva, quindi, che la richiesta scritta di cui all’art. 328, comma secondo, cod. pen., rilevante ai fini dell’integrazione della fattispecie, deve assumere la natura e la funzione tipica della diffida ad adempiere, dovendo la stessa essere rivolta a sollecitare il compimento dell’atto o l’esposizione delle ragioni che lo impediscono (Sez. 6, n. 40008 del 27/10/2010, brio, Rv. 248531; Sez. 6, n. 10002 del 08/06/2000, Spanò B, Rv. 218339; Sez. 6, n. 8263 del 17/05/2000, Visco, Rv. 216717).
Ciò implica che la richiesta rivolta nei confronti della pubblica amministrazione deve atteggiarsi, seppure senza l’osservanza di particolari formalità, come una diffida o intimazione tale da costituire una messa in mora nei confronti della P.A. e del soggetto preposto al relativo procedimento in quanto responsabile.
Ne deriva che il reato non è configurabile quando la richiesta non è qualificabile quale diffida ad adempiere, diretta alla messa in mora del destinatario e da quest’ultimo in tali termini valutabile, per il suo tenore letterale e per il suo contenuto. Seppure, quindi, non siano necessarie frasi che riproducano pedissequamente la formulazione della legge in termini di «diffida» e «messa in mora», il contenuto della richiesta deve essere tesa a rappresentare quantomeno la cogenza delle richiesta e la sua necessità di un adempimento direttamente ricondotto alla disciplina del procedimento amministrativo, circa le conseguenze in ipotesi di non evasione o mancata risposta nei termini.
Solo a tali condizioni può ritenersi immediatamente e chiaramente percepibile, quale diffida; atto che già a livello lessicale implica la necessità di rappresentare le conseguenze cui si incorre in caso di inadempimento, secondo la conformazione del reato, introdotto dall’art. 16 L. 26 aprile 1990, n. 86..
Nel caso in specie, il cittadino aveva presentato in data 29 ottobre 2013 la diffida ad adempire con cui aveva richiesto all’amministrazione comunale di porre in essere quanto necessario al fine di realizzare le opere di urbanizzazione utili all’immobile dell’istante.
Tale atto deve qualificarsi quale diffida in quanto contenente tutti gli elementi per ritenere cogente la richiesta sia perché si indicano le norme di legge che imponevano all’amministrazione di provvedere, sia poiché si fa riferimento al termine di trenta giorni entro il quale si sarebbe dovuta attivare la procedura, con specifica enunciazione delle conseguenze cui l’amministrazione ed i funzionari preposti sarebbero andati incontro in caso di inadempimento. Allo scadere del termine di trenta giorni assegnato, l’amministrazione avrebbe dovuto quantomeno rispondere specificando le ragione del ritardo, risposta mai fornita neppure a seguito di impugnazione del silenzio inadempimento in tal modo formatosi, con conseguente astratta integrazione della fattispecie prevista dall’art. 328, secondo comma, cod. pen., sotto il profilo meramente oggettivo.

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