Corte dei Conti, sezione giurisdizionale per la Regione Lombardia, sentenza n. 96 del 27 aprile 2018
In tema di ipotesi di danno erariale indiretto da malpractice medica, il Pubblico Ministero ha precisato anche che “in ambito “civilistico” vige, ai fini della prova e dell’accertamento del nesso causale quale elemento costitutivo oggetto della fattispecie illecita la regola del “più probabile che non” e pertanto non è invocabile nel processo amministrativo-contabile il precetto di cui all’art. 533 c.p.p. in tema di accertamento in termini di “quasi certezza” del nesso eziologico nell’ambito della responsabilità professionale del personale sanitario
Inoltre non è applicabile retroattivamente l’art. 9, comma 2 della legge n. 24/2017, da cui discenderebbe la declaratoria di inammissibilità dell’azione erariale. Ciò in quanto è da escludersi l’applicabilità con effetti retroattivi della richiamata disposizione. Detta inapplicabilità è dettata da ragioni formali, in assenza di una espressa previsione di efficacia retroattiva della norma, e da ragioni sostanziali, in quanto ne deriverebbe una ingiustificata sterilizzazione di tutte le azioni risarcitorie in cui le Aziende Ospedaliere non abbiano seguito, in assoluta buona fede, una procedura all’epoca non prevista e non richiesta né da previsioni di legge né tantomeno regolamentari (cfr. in proposito sentenze di questa Sezione n. 50 del 14 marzo 2018, n. 191 del 28 dicembre 2017 e 196 del 29 dicembre 2017; vedasi anche Sezione I Centrale d’Appello, 18 dicembre 2017, n. 536).
Infine deve affermarsi che le informazioni fornite dal medico e il corrispondente consenso informato reso dal paziente debbano essere ab origine completi e circostanziati. In sostanza, semplificando, non è certo possibile immaginare un consenso informato “a formazione progressiva” che venga di volta in volta implementato sulla base delle domande avanzate dal paziente al medico durante il periodo di attesa operatoria.
Tale visione, oltre ad essere intuitivamente estranea ai necessari criteri di completezza dell’informazione sanitaria e di buon andamento della struttura pubblica, sbilancerebbe oltremodo il rapporto medico-paziente in cui, come nel caso di specie, quest’ultimo, ancorché soggetto provvisto di elevato livello culturale (il Signor Omissis è un architetto), non risulta altresì dotato di un patrimonio conoscitivo tecnico-scientifico idoneo a ipotizzare un autonomo impulso nella formulazione di osservazioni o di richiesta di precisazioni di natura sanitaria a completamento, ad explorandum, delle lacune ravvisabili nell’incompletezza delle informazioni inizialmente eventualmente fornitegli. Sul punto, come validamente rilevato dallo stesso Requirente, la Suprema Corte di Cassazione ha inteso inequivocabilmente affermare che “in tema di attività medico-chirurgica, il consenso informato deve basarsi su informazioni dettagliate, idonee a fornire la piena conoscenza della natura, portata ed estensione dell’intervento medico-chirurgico, dei suoi rischi, dei risultati conseguibili e delle possibili conseguenze negative, non essendo all’uopo idonea la sottoscrizione, da parte del paziente, di un modulo del tutto generico, né rilevando, ai fini della completezza ed effettività del consenso, la qualità del paziente, che incide unicamente sulle modalità dell’informazione, da adattarsi al suo livello culturale mediante un linguaggio a lui comprensibile, secondo il suo stato soggettivo ed il grado delle conoscenze specifiche di cui dispone” (Cass. Civ., Sez. III, n. 2177/2016).