Corte di Cassazione, sentenza n. 11322 del 10 maggio 2018
La registrazione fonografica di un colloquio tra presenti, rientrando nel genus delle riproduzioni meccaniche di cui all’art. 2712 cod. civ., ha natura di prova ammissibile nel processo civile del lavoro così come in quello penale. Si è, quindi, ritenuto (v. Cass. 29 dicembre 2014, n. 27424 ed i richiami in essa contenuti a Cass. 22 aprile 2010, n. 9526 ed a Cass. 14 novembre 2008, n. 27157), alla luce della giurisprudenza delle Sezioni penali di questa S.C., che la registrazione fonografica di un colloquio, svoltosi tra presenti o mediante strumenti di trasmissione, ad opera di un soggetto che ne sia partecipe, è prova documentale utilizzabile quantunque effettuata dietro suggerimento o su incarico della polizia giudiziaria, trattandosi, in ogni caso, di registrazione operata da persona protagonista della conversazione, estranea agli apparati investigativi e legittimata a rendere testimonianza nel processo (espressamente in tal senso v. Cass. pen. n. 31342/11; Cass. pen. n. 16986/09; Cass. pen. n. 14829/09; Cass. pen. n. 12189/05; Cass. pen., Sez. U., n.36747/03). E’ stato, altresì, chiarito che l’iporesi derogatoria di cui all’art. 24 del d.lgs. n. 196/2003 che permette di prescindere dal consenso dell’interessato sussiste anche quando il trattamento dei dati, pur non riguardanti una parte del giudizio in cui la produzione viene eseguita, sia necessario, per far valere o difendere un diritto (Cass. 20 settembre 2013, n. 21612). Unica condizione richiesta è che i dati medesimi siano trattati esclusivamente per tali finalità e per il periodo strettamente necessario al loro perseguimento (cfr. la sopra richiamata Cass., Sez. U., n. 3033/2011 nonché Cass. 11 luglio 2013, n. 17204 e Cass. 10 agosto 2013, n. 18443). Quanto poi al concreto atteggiarsi del diritto di difesa, è stato ritenuto che la pertinenza dell’utilizzo rispetto alla tesi difensiva va verificata nei suoi termini astratti e con riguardo alla sua oggettiva inerenza alla finalità di addurre elementi atti a sostenerla e non alla sua concreta idoneità a provare la tesi stessa o avendo riguardo alla ammissibilità e rilevanza dello specifico mezzo istruttorio (v. la già citata Cass. n. 21612/2013). Inoltre, il diritto di difesa non va considerato limitato alla pura e semplice sede processuale, estendendosi a tutte quelle attività dirette ad acquisire prove in essa utilizzabili, ancor prima che la controversia sia stata formalmente instaurata mediante citazione o ricorso (cfr. la già citata Cass. n. 27424/2014). Nella fattispecie qui in esame, la Corte territoriale, dopo aver premesso che quelle di cui si discuteva erano registrazioni di colloqui ad opera del dipendente, vale a dire di una delle persone presenti e partecipi ad essi, ha ritenuto che il suddetto dipendente avesse adottato tutte le dovute cautele al fine di non diffondere le registrazioni dal medesimo effettuate all’insaputa dei soggetti coinvolti ed ha considerato operante la deroga relativa all’ipotesi per cui il consenso non fosse richiesto, trattandosi di far valere o difendere un diritto in sede giudiziaria. Così ha evidenziato che la condotta era stata posta in essere dal dipendente ‘per tutelare la propria posizione all’interno dell’azienda, messa a rischio da contestazioni disciplinari non proprio cristalline’ e per ‘precostituirsi un mezzo di prova visto che diversamente avrebbe potuto trovarsi nella difficile situazione di non avere strumenti per tutelare la propria posizione ritenuta pregiudicata dalla condotta altrui’. Il tutto in un contesto caratterizzato da un conflitto tra il dipendente ed i colleghi di rango più elevato e da inascoltate recriminazioni relative a disorganizzazioni lavorative asseritamente alla base delle indicate contestazioni disciplinari (cfr. pag. 9 della sentenza, ultimo capoverso fino al primo di pag. 10) in cui il reperimento delle varie fonti di prova poteva risultare particolarmente difficile a causa di eventuali possibili ‘sacche di omertà’ come era dato apprezzare da quanto emerso in sede di istruttoria (cfr. pag. 10 della sentenza, penultimo capoverso). Ed allora, si trattava di una condotta legittima, pertinente alla tesi difensiva del lavoratore e non eccedente le sue finalità, che come tale non poteva in alcun modo integrare non solo l’illecito penale ma anche quello disciplinare, rispondendo la stessa alle necessità conseguenti al legittimo esercizio di un diritto, ciò sia alla stregua dell’indicata previsione derogatoria del codice della privacy sia, in ipotetica sua incompatibilità con gli obblighi di un rapporto di lavoro e di quelli connessi all’ambiente in cui esso si svolge, sulla base dell’esistenza della scriminante generale dell’art. 51 cod. pen., di portata generale nell’ordinamento e non già limitata al mero ambito penalistico (e su ciò dottrina e giurisprudenza sono, com’è noto, da sempre concordi – cfr. la già richiamata Cass. n. 27424/2014 -).