Corte di Cassazione, ordinanza n. 8692 del 19 aprile 2018
Ai resistenti, infermieri generici, che avevano svolto di fatto la mansioni di infermieri professionali, la Corte d’Appello aveva riconosciuto il diritto alla corresponsione della maggiore retribuzione per lo svolgimento di dette mansioni superiori. Contro la sentenza ricorre la ASL datrice di lavoro. La Suprema Corte, accogliendo il ricorso ricorda che: “deve rilevarsi che per le professioni sanitarie, la carenza del titolo abilitativo specifico e della relativa iscrizione all’albo producono la totale illiceità dello svolgimento di fatto di mansioni superiori e rendono inesigibile il diritto alla corrispondente maggiore retribuzione ai sensi dell’art. 2126 cod. civ…. d’altronde, questa Corte ha già avuto modo di evidenziare lo stretto legame esistente tra la richiesta del titolo di studio abilitante da parte della legge e l’incidenza dell’attività sanitaria sulla salute e sicurezza pubblica e sulla tutela dei diritti fondamentali della persona”. E ribadendo un principio, peraltro consolidato nella giurisprudenza amministrativa sotto il previgente regime del pubblico impiego, ha affermato che “…qualora il contenuto e le mansioni di una qualifica discendano dalla legge professionale, in ordine al possesso di un determinato titolo di studio per l’esercizio di una professione, non può considerarsi utile ai fini del conseguimento di una tale qualifica (superiore) l’espletamento di mansioni che la legge professionale stessa riservi esclusivamente a chi è in possesso di quello specifico titolo di studio, atteso che, con riferimento alla disciplina dettata dall’art. 2126 cod. civ., l’attività eventualmente svolta si pone come illecita perché in violazione di norme imperative attinenti all’ordine pubblico, poste a tutela della generalità dei cittadini e non già del prestatore di lavoro.” (Cass. n.15450/2014)”.