Quali sono i limiti allo jus variandi del datore di lavoro, pubblico o privato? Può il datore di lavoro assegnare diverse mansioni al lavoratore, anche se non fanno parte della professionalità acquisita?
Alle superiori domande sono state date nel tempo risposte diverse, a secondo che trattavasi di impiego pubblico o privato.
Infatti, nell’impiego privato si faceva riferimento all’art. 2103 c.c., secondo cui, (nel testo in vigore fino al 24-6-2015) “Il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali e’ stato assunto o a quelle corrispondenti alla categoria superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte, senza alcuna diminuzione della retribuzione”
La parola determinante era “equivalenti”. Ciò lasciava ampio margine di discrezionalità al giudice in sede di applicazione delle norma, nello stabilire in concreto se le mansioni successive fossero “equivalenti” a quelle in precedenza svolte, ma, ancor di più, il termine di paragone diventava la professionalità acquisita, che si rifletteva nelle “ultime mansioni svolte”.
Tra le tante, cito Corte di Cassazione n. 1916/2015, secondo cui “nell’indagine circa l’esistenza o meno di un’equivalenza tra le vecchie e le nuove mansioni non basta il riferimento in astratto al livello di categoria, ma è necessario accertare che le nuove mansioni siano aderenti alla specifica competenza tecnico professionale del dipendente e siano tali da salvaguardarne il livello professionale acquisito, in una prospettiva dinamica di valorizzazione della capacità di arricchimento del bagaglio di conoscenze ed esperienze (cfr., ex aliis, Cass. N. 5798/13; Cass. n. 16190/07; Cass. n. 17351/05; Cass. n. 14666/04; Cass. n.14150/02; Cass. n. 8577/99; Cass. n. 19775/97).
Ciò è coerente con la statuizione di Cass. S.U. n. 25033/06, secondo cui, in sintesi, il baricentro dell’art. 2103 c.c. è dato dalla protezione della professionalità acquisita dal prestatore di lavoro”.
Ribadiva i medesimi concetti anche Cassazione 4211/2016 (citando Cass.15010/2013): “ai fini della verifica del legittimo esercizio dello “ius variandi” da parte del datare di lavoro, deve essere valutata, dal giudice di merito – con giudizio di fatto incensurabile in cassazione ove adeguatamente motivato – la omogeneità tra le mansioni successivamente attribuite e quelle di originaria appartenenza, sotto il profilo della loro equivalenza in concreto rispetto alla competenza richiesta, al livello professionale raggiunto ed alla utilizzazione del patrimonio professionale acquisito dal dipendente, senza che assuma rilievo che, sul piano formale, entrambe le tipologie di mansioni rientrino nella medesima area operativa”
Dal 25-6-2015, cioè con l’entrata in vigore del d.lgs. 81/2015, il testo dell’art. 2103 c.c. è stato modificato nel testo seguente: “Il lavoratore deve essere adibito alle mansioni per le quali e’ stato assunto o a quelle corrispondenti all’inquadramento superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni riconducibili allo stesso livello e categoria legale di inquadramento delle ultime effettivamente svolte”
Quindi il nuovo testo apre una porta (e forse di più) al confronto, non più e non solo con la professionalità acquisita, ma con le declaratorie che la contrattazione collettiva può fare riguardo alle mansioni riconducibili ad una categoria di inquadramento.
Questa era anche, in sintesi, l’interpretazione in materia di jus variandi nel pubblico impiego, infatti, Cassazione n. 2011/2017 (successivamente confermata da Cassazione n. 21261/2017) ricorda:
“A partire dalla sentenza resa dalle Sezioni Unite n. 8740/08, è principio costante nella giurisprudenza di questa Corte che, in materia di pubblico impiego contrattualizzzato, non si applica l’art. 2103 c.c., essendo la materia disciplinata compiutamente dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 52 (come già detto, nel testo anteriore alla novella recata dal D.Lgs. n. 150 del 2009, art. 62, comma 1, inapplicabile ratione temporis al caso in esame) – che assegna rilievo, per le esigenze di duttilità del servizio e di buon andamento della P.A., solo al criterio dell’equivalenza formale con riferimento alla classificazione prevista in astratto dai contratti collettivi, indipendentemente dalla professionalità in concreto acquisita, senza che possa quindi aversi riguardo alla citata norma codicistica ed alla relativa elaborazione dottrinaria e giurisprudenziale che ne mette in rilievo la tutela del c.d. bagaglio professionale del lavoratore, e senza che il giudice possa sindacare in concreto la natura equivalente della mansione (Cass. n. 17396/11; Cass. n. 18283/10; Cass. sez.un. n. 8740/08; v. più recentemente, Cass. n. 7106 del 2014 e n. 12109 e n. 17214 del 2016).”
Quindi nel pubblico impiego, non rileva l’eventuale “bagaglio professionale” acquisito. O, meglio, …non rilevava!
Infatti nella pronuncia appena citata, il testo posto tra parentesi “(nel testo anteriore alla novella recata dal D.Lgs. n. 150 del 2009, art. 62, comma 1, inapplicabile ratione temporis al caso in esame)”, vale ad affermare che, a decorrere dalla riforma citata, probabilmente tale “principio costante della giurisprudenza” può essere messo in discussione.
Il testo originario dell’art. 52 del Testo Unico del Pubblico Impiego (TUPI), recitava:
“Il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali e’ stato assunto o alle mansioni considerate equivalenti nell’ambito della classificazione professionale prevista dai contratti collettivi, ..”
Quindi, come ripetutamente affermato dalla Suprema Corte anche con la succitata pronuncia, ciò che contava era la “classificazione professionale prevista dai contratti collettivi”.
Con la c.d. “riforma Brunetta”, invece il testo era mutato come segue:
“Il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali e’ stato assunto o alle mansioni equivalenti nell’ambito dell’area di inquadramento ovvero a quelle corrispondenti alla qualifica superiore che abbia successivamente acquisito per effetto delle procedure selettive di cui all’articolo 35, comma 1, lettera a)”
E’ evidente ictu oculi la modifica, infatti è stato totalmente espunto il riferimento alla classificazione professionale della contrattazione collettiva.
Quindi, mentre il mercato del lavoro privato dalle “mansioni equivalenti” si spostava alle “mansioni riconducibili allo stesso livello e categoria legale di inquadramento“, in senso opposto, nel pubblico impiego lo jus variandi cambiava dalle “mansioni considerate equivalenti nell’ambito della classificazione professionale prevista dai contratti collettivi”, alle “mansioni equivalenti nell’ambito dell’area di inquadramento” (senza riferimento ai contratti collettivi).
Quindi era importante verificare come la Suprema Corte avrebbe risolto una fattispecie concreta, ricadente nel periodo di efficacia temporale successivo alla riforma operata dal d.lgs. 150/2009. Avrebbe continuato a dare rilievo alla classificazione operata dai contratti collettivi, oppure alla professionalità acquisita dal lavoratore?
Recentemente, una sentenza ha affrontato una fattispecie solo parzialmente sovrapponibile al quesito che ci stiamo ponendo. Infatti, seppur trattasi di pubblico impiego successivo alla riforma, riguarda un dirigente medico, nei cui confronti, pacificamente, non si applica nè l’art. 2103 c.c., nè gli stessi criteri previsti dall’art. 52 del d.lgs. 165/2001, infatti l’art. 19 del d.lgs. n. 165 del 2001 esclude l’applicabilità agli incarichi dirigenziali dell’art. 2103 cod. civ. e detta esclusione è stata ribadita per i dirigenti medici dalle parti collettive ( art. 27 CCNL 8.6.2000 per la dirigenza medica del servizio sanitario nazionale).
Purtuttavia, la Suprema Corte introduce un altro elemento di valutazione, cioè la buona fede e la correttezza del datore di lavoro.
Infatti la Corte, pur puntualizzando che “Il dirigente medico non ha un diritto soggettivo a svolgere interventi qualitativamente e quantitativamente equivalenti a quelli curati da altri dirigenti della medesima struttura né a quelli svolti in passato,” afferma che “il datore di lavoro nell’assegnazione degli incarichi e nella distribuzione del lavoro fra i dirigenti medici è tenuto al rispetto delle regole di correttezza e buona fede, sicché il diritto deve essere esercitato tenendo conto delle esigenze superiori di tutela della salute dei cittadini e non può essere finalizzato a mortificare la personalità del dirigente né a realizzare risultati diversi ed ulteriori rispetto a quelli per i quali il potere è attribuito” (Corte di Cassazione, sentenza n. 4986 del 2 marzo 2018)
E più avanti:
“deve essere garantito al dirigente di svolgere un’attività che sia correlata alla professionalità posseduta, sicché il dirigente stesso non può essere posto in una condizione di sostanziale inattività né assegnato a funzioni che richiedano un bagaglio di conoscenze specialistiche diverso da quello posseduto e allo stesso non assimilabile”.
Quindi ecco la soluzione proposta dalla Suprema Corte: non si deve fare riferimento nè all’equivalenza delle mansioni operata dalla contrattazione collettiva, nè “tout court” alla professionalità acquisita dal dipendente, ma ai canoni della correttezza e buona fede, quindi ogni variazione di mansioni affidate non può avere l’effetto di mortificare la professionalità posseduta dal dipendente, se le nuove mansioni richiedono un bagaglio di conoscenze specialistiche diverso da quello posseduto fino ad allora.
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