Costringere dipendenti ad accettare di meno e/o a lavorare di più di quanto previsto in busta paga, può costituire estorsione e autoriciclaggio

Corte di Cassazione Penale, sentenza n. 25979 dep 7 giugno 2018

Gli imputati era accusati di estorsione in concorso, per avere l’ amministratore unico della X srl, mediante minaccia di non assunzione o di licenziamento, costretto una molteplicità di lavoratori dipendenti ad accettare retribuzioni inferiori a quelle risultanti dalle buste paga e a sopportare orari superiori a quelli contrattualmente stabiliti, con ingiusto profitto degli imputati e della società dagli stessi gestita in danno degli stessi nonché del delitto di autoriciclaggio continuato per aver destinato il denaro proveniente dal delitto di estorsione, per circa 508mila euro, alla retribuzione in nero di dipendenti legati loro da particolare rapporto di fiducia.
La Suprema Corte ha affermato che integra il delitto di estorsione la condotta del datore di lavoro che, approfittando della situazione del mercato del lavoro a lui favorevole per la prevalenza dell’offerta sulla domanda, costringe i lavoratori, con la minaccia larvata di licenziamento, ad accettare la corresponsione di trattamenti retributivi deteriori e non adeguati alle prestazioni effettuate, in particolare consentendo a sottoscrivere buste paga attestanti il pagamento di somme maggiori rispetto a quelle effettivamente versate (Sez. 2, n. 11107 del 14/02/2017, Tessitore, Rv. 269905; n. 677 del 10/10/2014, Di Vincenzo, Rv. 261553). Nel caso a giudizio legittimamente i giudici della cautela reale, sulla scorta delle dichiarazioni delle dipendenti, hanno ritenuto l’accettazione di condizioni retributive non corrispondenti al lavoro svolto come frutto delle ricorrenti intimidazioni che prospettavano la perdita del posto di lavoro ovvero trasferimenti in sedi disagiate, di fatto costringendo le lavoratrici a rinunziare a parte del salario. il rastrellamento di liquidità attraverso le condotte estorsive enucleate in incolpazione e, in particolare, per effetto della mancata corresponsione degli anticipi solo formalmente versati in contanti, delle quattordicesime mensilità, del corrispettivo dei permessi non goduti e il successivo utilizzo, secondo le ammissioni dello stesso indagato, per pagare provvigioni o altri benefit aziendali in nero in favore dei venditori della società integra una condotta di reimmissione dei fondi illeciti nel circuito aziendale, concretamente ed efficacemente elusiva dell’identificazione della provenienza delittuosa della provvista. Non coglie, dunque, nel segno la difesa allorchè opina che ai fini del delitto in esame rilevano quei comportamenti “che importano un mutamento della formale titolarità del bene o delle disponibilità” ( pag. 23), avendo questa Corte precisato in tema di concorso con il reato ex art. 12 quinquies D.L. 306/92 che la condotta di autoriciclaggio non presuppone e non implica che l’autore di essa ponga in essere anche un trasferimento fittizio ad un terzo dei cespiti rivenienti dal reato presupposto, in quanto l’eventuale coinvolgimento di un soggetto “prestanome” impedisce di ricomprendere tale ulteriore condotta in quelle operazioni idonee ad ostacolare l’identificazione della provenienza delittuosa dei beni, indicate nel predetto art. 648-ter1 e riferibili al solo soggetto agente del reato di autoriciclaggio (Sez. 2, n. 3935 del 12/01/2017, Di Monaco e altri, Rv. 269078)

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