Corte di Cassazione, sentenza n. 20742 del 16 agosto 2018
La Suprema Corte ha già avuto modo di pronunciarsi in più occasioni sulla materia del recesso datoriale fondato su un motivo ritorsivo unico e determinante, affermando che l’onere di dimostrare l’intento discriminatorio, idoneo a configurare la nullità del recesso (e determinare l’applicazione della più grave delle sanzioni, ai sensi dell’art. 3 della I. n.108 del 1990), è posto a carico del lavoratore (art. 2697 co. civ.) (Cass. n. 3986/2015; n. 17087/11; n.6282/2011; n.16155/2009). La spiegazione di una siffatta incombenza probatoria risiede nel carattere di eccezione della doglianza, la quale rappresenta un “…fatto impeditivo del diritto del datore di lavoro di avvalersi di una giusta causa o d’un giustificato motivo di recesso pur formalmente apparenti…” (Cass. n.6501/2013). La causa discriminatoria si esprime, infatti, per mezzo di un atto astrattamente lecito, sebbene viziato per il fatto di costituire la risposta esclusiva all’esercizio del diritto datoriale di recesso. Nel merito delle specifiche censure mosse dalla ricorrente alla sentenza impugnata, si rileva che dall’iter argomentativo seguito dalla Corte territoriale non è dato evincere alcun accertamento, né in merito all’effettiva causale del recesso, né in merito all’avvenuto raggiungimento in giudizio della prova della ritorsione – quale motivo unico e determinante – offerta dal dirigente licenziato (art. 1345 cod. civ.).