Corte di Cassazione, sentenza n. 22683 del 25 settembre 2018
E’ indubitabile che l’art. 6 bis della L. n. 241, introdotto dall’art. 1 c. 41 della L. 6 novembre 2012, n. 190 ha imposto una precisa regola di condotta del pubblico dipendente che rivesta il ruolo di responsabile del procedimento, avendo previsto che “Il responsabile del procedimento e i titolari degli uffici competenti ad adottare i pareri, le valutazioni tecniche, gli atti endoprocedimentali e il provvedimento finale devono astenersi in caso di conflitto di interessi, segnalando ogni situazione di conflitto, anche potenziale”.
L’obbligo di segnalazione dei conflitti di interesse anche solo “potenziale” e il dovere di astensione dalle attività di ufficio che possano coinvolgere interessi privati risultano riaffermati anche dal D.P.R. 16 aprile 2013, n. 62 che impone (art. 6.) al pubblico dipendente “Fermi restando gli obblighi di trasparenza previsti da leggi o regolamenti” di informare per iscritto il dirigente dell’ufficio di tutti i rapporti, diretti o indiretti, di collaborazione con soggetti privati in qualunque modo retribuiti che lo stesso abbia o abbia avuto negli ultimi tre anni, precisando: a) se in prima persona, o suoi parenti o affini entro il secondo grado, il coniuge o il convivente abbiano ancora rapporti finanziari con il soggetto con cui ha avuto i predetti rapporti di collaborazione; b) se tali rapporti siano intercorsi o intercorrano con soggetti che abbiano interessi in attività o decisioni inerenti all’ufficio, limitatamente alle pratiche a lui affidate e di astenersi “dal prendere decisioni o svolgere attività inerenti alle sue mansioni in situazioni di conflitto, anche potenziale, di interessi con interessi personali, del coniuge, di conviventi, di parenti, di affini entro il secondo grado, e precisa che “il conflitto può riguardare interessi di qualsiasi natura, anche non patrimoniali, come quelli derivanti dall’intento di voler assecondare pressioni politiche, sindacali o dei superiori gerarchici”.
Esso prescrive al pubblico dipendente (art. 7) anche di astenersi dal partecipare all’adozione di decisioni o ad attività che possano coinvolgere interessi propri, ovvero di suoi parenti, affini entro il secondo grado, del coniuge o di conviventi, oppure di persone con le quali abbia rapporti di frequentazione abituale, ovvero, di soggetti od organizzazioni con cui egli o il coniuge abbia causa pendente o grave inimicizia o rapporti di credito o debito significativi, ovvero di soggetti od organizzazioni di cui sia tutore, curatore, procuratore o agente, ovvero di enti, associazioni anche non riconosciute, comitati, società o stabilimenti di cui sia amministratore o gerente o dirigente e di astenersi in ogni altro caso in cui esistano gravi ragioni di convenienza. Il D.P.R. citato obbliga (art.9), poi, il pubblico dipendente ad assicurare l’adempimento degli obblighi di trasparenza previsti in capo alle pubbliche amministrazioni secondo le disposizioni normative vigenti, prestando la massima collaborazione nell’elaborazione, reperimento e trasmissione dei dati sottoposti all’obbligo di pubblicazione sul sito istituzionale.
Nel contesto normativo, di fonte legale e regolamentare, innanzi ricostruito è corretta l’affermazione secondo cui ciò che rileva è il conflitto che in astratto (potenziale) può verificarsi e che è, di contro, ininfluente che esso si sia nel concreto realizzato, ove si consideri che gli obblighi imposti al pubblico dipendente mirano a garantire la trasparenza e l’imparzialità dell’azione amministrativa e, ad un tempo, a prevenire fenomeni di corruzione.
L’Ente pubblico può quindi anche adottare sanzioni espulsive. L’art. 16 c. 1, dopo avere attribuito rilievo disciplinare alla violazione degli obblighi previsti Codice, prevedendo che essa integra comportamenti contrari ai doveri d’ufficio, dispone che, “ferme restando le ipotesi in cui la violazione delle disposizioni contenute nel presente Codice, nonché dei doveri e degli obblighi previsti dal piano di prevenzione della corruzione, dà luogo anche a responsabilità penale, civile, amministrativa o contabile del pubblico dipendente, essa è fonte di responsabilità disciplinare accertata all’esito del procedimento disciplinare, nel rispetto dei principi di gradualità e proporzionalità delle sanzioni”. L’art. 16 cit. dispone, inoltre (c.2), che, ai fini della determinazione del tipo e dell’entità della sanzione disciplinare concretamente applicabile, la violazione è valutata in ogni singolo caso con riguardo alla gravità del comportamento e all’entità del pregiudizio, anche morale, derivatone al decoro o al prestigio dell’amministrazione di appartenenza e che le sanzioni applicabili sono quelle previste dalla legge, dai regolamenti e dai contratti collettivi “incluse quelle espulsive che possono essere applicate esclusivamente nei casi, da valutare in relazione alla gravità, di violazione delle disposizioni di cui agli articoli 4, qualora concorrano la non modicità del valore del regalo o delle altre utilità e l’immediata correlazione di questi ultimi con il compimento di un atto o di un’attività tipici dell’ufficio, 5, comma 2, 14, comma 2, primo periodo, valutata ai sensi del primo periodo. La disposizione di cui al secondo periodo si applica altresì nei casi di recidiva negli illeciti di cui agli articoli 4, comma 6, 6, comma 2, esclusi i conflitti meramente potenziali, e 13, comma 9, primo periodo”.