Corte di Cassazione, sentenza n. 31086 del 30 novembre 2018
In base a costanti indirizzi della giurisprudenza, la facoltà del dipendente di non eseguire un ordine, previa rimostranza a chi lo ha impartito è così disciplinato: “se ritiene che l’ordine sia palesemente illegittimo, il dipendente deve farne rimostranza a chi l’ha impartito dichiarandone le ragioni; se l’ordine è rinnovato per iscritto ha il dovere di darvi esecuzione. Il dipendente, non deve, comunque, eseguire l’ordine quando l’atto sia vietato dalla legge penale o costituisca illecito amministrativo” (Cons. Stato, Sez. V, sentenza 15 dicembre 2008, n. 6208);
La “palese” illegittimità dell’ordine corrisponde ad una vera e propria (oggettiva) illegittimità dell’ordine stesso che – anche se non riguardi il compimento di un atto vietato dalla legge penale o costituente illecito amministrativo (come tale da non eseguire) – comunque deve essere affetto da un vizio di legittimità, cioè da uno dei vizi tipici degli atti amministrativi o da altri vizi, che nella specie rilevano come violazioni dei generali principi di buona fede e correttezza di cui agli artt. 1175 e 1375 cod. civ. i quali, alla stregua dei principi di imparzialità e di buon andamento di cui all’art. 97 Cost., devono essere rispettati dalla PA nell’emanazione degli atti che rivestono la natura di determinazioni negoziali assunte con la capacità e i poteri del privato datore di lavoro (quali sono quelli di cui si discute nel presente giudizio).
14.3. In questa cornice il riferimento alla soggettiva percezione da parte del destinatario dell’ordine non elide la necessità di una illegittimità “palese”, ma è finalizzata a fare sì che tutti i dipendenti pubblici, di ogni ordine e grado, collaborino alla legalità dell’agire della PA in cui prestano servizio, in attuazione di quanto previsto dall’art. 54, secondo comma, Cost., in base al quale: “i cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore”.
Non a caso anche il Codice di comportamento dei dipendenti pubblici (di cui al d.P.R. 16 aprile 2013, n. 62) all’art. 9, comma 2, stabilisce che “la tracciabilità dei processi decisionali adottati dai dipendenti deve essere, in tutti i casi, garantita attraverso un adeguato supporto documentale, che consenta in ogni momento la replicabilità” e all’art. 12, comma 1, prevede che: “nelle operazioni da svolgersi e nella trattazione delle pratiche il dipendente rispetta, salvo diverse esigenze di servizio o diverso ordine di priorità stabilito dall’amministrazione, l’ordine cronologico e non rifiuta prestazioni a cui sia tenuto con motivazioni generiche”.
Ne risulta confermato che non sussiste un obbligo incondizionato del pubblico dipendente di eseguire le disposizioni, ivi incluse quelle derivanti da atti di organizzazione, impartite dai superiori o dagli organi sovraordinati, visto che il dovere di obbedienza incontra un limite nell’obiezione circa l’illegittimità dell’ordine ricevuto (Corte dei Conti Sicilia, sentenza 27 marzo 2014, n. 117). Ma è evidente che si deve trattare di un’obiezione ragionevole che si basi su una reale illegittimità dell’ordine e che può essere esternata e percepita anche soltanto dal destinatario dell’ordine medesimo, ma nel suo ruolo di “sentinella” e di collaboratore ad assicurare la legalità dell’Amministrazione, che gli deriva dall’art. 54, secondo comma, Cost. e non per finalità, ragioni e percezioni meramente personali e soggettive.
È in quest’ottica che la normativa di legge e contrattuale stabilisce che l’esercizio della facoltà del dipendente di non eseguire un ordine, previa rimostranza a chi lo ha impartito, richiede, oltre alla palese illegittimità dell’ordine, anche che il dipendente non si limiti ad un mero rifiuto, ma concreti le sue motivate obiezioni, indicando le ragioni con dichiarazioni indirizzate a colui dal quale proviene l’ordine (Cass. 15 febbraio 2008, n. 3802).