Corte di Cassazione Penale, sentenza n. 4486 dep 29 gennaio 2019
La nuova formulazione della fattispecie, ora rubricata come “corruzione per l’esercizio della funzione”, ha invero inciso notevolmente nella struttura della stessa, mutandone la natura. Si tratta ancora di una ipotesi meno grave di corruzione, come in passato, ma mentre nella precedente versione la fattispecie era pur sempre costruita come reato di danno (la violazione del principio di correttezza e del dovere di imparzialità del pubblico ufficiale), connesso alla compravendita di un atto d’ufficio (purché non contrario ai doveri di ufficio, nel senso che la parzialità non doveva trasferirsi sull’atto, segnandolo di connotazioni privatistiche, restando pertanto l’unico possibile per attuare interessi esclusivamente pubblici), nella nuova tipizzazione il legislatore ha inteso ricomprendere tutte le forme di “compravendita della funzione”, non connesse causalmente al compimento di un atto contrario ai doveri di ufficio. Prima della riforma, restava invero non del tutto chiara la qualificazione di quelle condotte di “asservimento” della funzione da parte del pubblico ufficiale che si poneva, dietro compenso, “a disposizione” del privato in violazione dei doveri di imparzialità, onestà e vigilanza. A fronte dell’accertamento di un accordo avente ad oggetto soltanto una generica disponibilità, senza la possibilità di individuare nei suoi connotati specifici l’atto contrario ai doveri d’ufficio, la giurisprudenza di legittimità, pur nel contesto di un’interpretazione ragionevolmente estensiva dell’art. 319 cod. pen., aveva affermato che era sufficiente che fosse individuabile il “genus” di atti da compiere, suscettibile di specificarsi in una pluralità di atti singoli non preventivamente fissati o programmati (tra tante, Sez. 6, n. 30058 del 16/05/2012, Di Giorgio, Rv. 253216). La nuova fattispecie ha inteso superare i limiti applicativi della previgente normativa codicistica, così da colmare lo iato tra diritto positivo e diritto vivente formatosi in ordine al concetto di atto di ufficio, punendo tutte quelle ipotesi di mercimonio connesse causalmente all’esercizio di pubblici funzioni o poteri, costituenti forme di generica messa a disposizione del pubblico funzionario. Come già affermato da questa Corte, il nuovo testo dell’art. 318 cod. pen. non ha proceduto ad alcuna abolitio criminis, neanche parziale, delle condotte previste dalla precedente formulazione e ha, invece, determinato un’estensione dell’area di punibilità, in quanto ha sostituito alla precedente causale del compiendo o compiuto atto dell’ufficio, oggetto di “retribuzione”, il più generico collegamento, della dazione o promessa di utilità ricevuta o accettata, all’esercizio (non temporalmente collocato e, quindi, suscettibile di coprire entrambe le situazioni già previste nei due commi del precedente testo dell’articolo) delle funzioni o dei poteri del pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio, così configurando, per i fenomeni corruttivi non riconducibili all’area dell’art. 319 cod. pen, una fattispecie di onnicomprensiva “monetizzazione” del munus pubblico, sganciata in sè da una logica di formale sinallagma e idonea a superare i limiti applicativi che il vecchio testo presentava in relazione alle situazioni di incerta individuazione di un qualche concreto comportamento pubblico oggetto di mercimonio (Sez. 6, n. 49226 del 25/09/2014, Chisso, Rv. 26135; Sez. 6, n. 19189 del 11/01/2013, Abbruzzese, Rv. 255073). Si è infatti fatto notare che la riscrittura dell’art. 318 cod. pen. ha portato nell’assetto del delitto di corruzione un’importante novità: il baricentro del reato non è più l’atto di ufficio da compiere o già compiuto, ma l’esercizio della funzione pubblica. Il nuovo criterio di punibilità risulta pertanto ancorato al mero “esercizio delle sue funzioni o dei suoi poteri”, a prescindere dal fatto che tale esercizio assuma carattere legittimo o illegittimo e, quindi, senza che sia necessario accertare l’esistenza di un nesso tra la dazione indebita e uno specifico atto dell’ufficio. In definitiva, l’art. 318 cod. pen. contiene i divieti diretti al pubblico funzionario di non ricevere denaro o altre utilità in ragione della funzione pubblica esercitata e, specularmente, al privato di non corrisponderglieli. In tal modo, il legislatore ha inteso, secondo la logica del pericolo presunto, prevenire la compravendita degli atti d’ufficio e garantire al contempo il corretto funzionamento e l’imparzialità della pubblica amministrazione. Il limite esterno del nuovo reato di cui all’art. 318 cod. pen., rispetto alla più grave fattispecie della corruzione propria, resta pur sempre l’ipotesi in cui sia accertato un nesso strumentale tra la dazione-promessa e il compimento di un determinato o comunque ben determinabile atto contrario ai doveri d’ufficio. In definitiva, come condivisibilmente già affermato da questa Corte (Sez. 6, n. 49226 del 25/09/2014, Chisso, Rv. 26135), i fenomeni di corruzione sistemica conosciuti dall’esperienza giudiziaria come “messa a libro paga del pubblico funzionario” o “asservimento della funzione pubblica agli interessi privati” o “messa a disposizione del proprio ufficio”, tutti caratterizzati da un accordo corruttivo che impegna permanentemente il pubblico ufficiale a compiere od omettere una serie indeterminata di atti ricollegabili alla funzione esercitata – sussunti prima della riforma del 2012 nella fattispecie prevista dall’art. 319 cod. pen. – devono essere ricondotti nella previsione della nuova fattispecie dell’art. 318 cod. pen, sempre che l’accordo o i pagamenti intervenuti non siano ricollegabili al compimento di uno o più atti contrari ai doveri d’ufficio.
Il discrimine tra le due ipotesi corruttive resta pertanto segnato dalla progressione criminosa dell’interesse protetto in termini di gravità (che giustifica la diversa risposta punitiva) da una situazione di pericolo (il generico asservimento della funzione) ad una fattispecie di danno, in cui si realizza la massima offensività del reato (con l’individuazione di un atto contrario ai doveri d’ufficio). Nel primo caso la dazione indebita, condizionando la fedeltà ed imparzialità del pubblico ufficiale che si mette genericamente a disposizione del privato, pone in pericolo il corretto svolgimento della pubblica funzione; nell’altro, la dazione, essendo connessa sinallagmaticamente con il compimento di uno specifico atto contrario ai doveri d’ufficio, realizza una concreta lesione del bene giuridico protetto, meritando quindi una pena più severa.