Corte dei Conti, Sezione Giurisdizionale Umbria, sentenza n. 67 del 25 settembre 2019
Gli elementi strutturali dell’illecito contabile sono stati definiti dalla oramai univoca e costante giurisprudenza contabile in termini simili all’illecito civile.
Deve esistere una condotta attiva o omissiva del convenuto la quale si ponga in rapporto di causa o concausa rispetto alla produzione del danno contestato dalla Procura regionale (elementi oggettivi).
L’illecito contabile, nella sua componente oggettiva, per essere legittimamente imputabile al convenuto deve essergli riferibile a titolo di dolo o colpa grave, essendo irrilevante la mera colpa lieve, la quale può produrre conseguenze dal punto di vista del diritto civile ed amministrativo (e persino di quello penale ove il reato sia previsto come colposo), ma non di quello contabile.
Il dolo consiste nella intenzionalità del comportamento produttivo dell’evento lesivo, vale a dire della consapevole volontà di arrecare un danno ingiusto all’Amministrazione (C. conti, sez. III, 20 febbraio 2004, n. 1447), mentre la colpa grave (generalizzata dall’art. 1, comma 1, legge 14 gennaio 1994, n. 20), da accertarsi (ex ante al tempo della condotta e non ex post) non in termini psicologici bensì normativi, consiste nell’errore professionale inescusabile dipendente da una violazione di legge, da intendersi in senso ampio (c.d. colpa generica), ovvero fondata su imperizia, negligenza e imprudenza (c.d. colpa generica), dovendo la stessa sempre essere riferibile ai compiti, mansioni, funzioni e poteri del convenuto, non potendo, invece, essere dedotta dalla mera posizione di vertice, a meno che questa non implichi la necessità di adottare atti specifici puntualmente indicati dalla Procura regionale (C. conti, sez. riun., 14 settembre 1982, n. 313; sez. riun., 26 maggio 1987, n. 532; sez. riun., 10 giugno 1997, n. 56; sez. riun., 8 maggio 1991, n. 711; sez. riun., 25 luglio 1997, n. 63/A; sez. riun., 20 maggio 1998, n. 22/A; sez. riun., 21 maggio 1998, n. 23/A).
La Corte costituzionale ha ritenuto legittimo il predetto art. 1, comma 1, legge 14 gennaio 1994, n. 20: La posizione del Giudice delle leggi, si è conformata alla precedente giurisprudenza costituzionale (C. cost., 12 marzo 1975, n. 54 e C. cost., 15 novembre 1988, n. 1032) e contabile (C. conti, sez. riun., 5 febbraio 1992, n. 744/A, in particolare, aveva precisato che l’art. 1 legge 31 dicembre 1962, n. 1833, “ha previsto l’elemento psicologico della colpa grave, ai fini dell’attribuzione della responsabilità nei loro confronti, introducendo, quindi, una soglia di punibilità più alta (colpa grave), rispetto a quella (ordinaria) civile (colpa lieve).
Il danno alla finanza pubblica costituisce al contempo elemento strutturale dell’illecito contabile e presupposto della giurisdizione contabile. L’azione della Procura regionale, difatti, anche in ragione della necessaria esistenza di una specifica denuncia di danno (art. 51, comma 1, c.g.c.), deve presupporre un pregiudizio attuale e concreto, essendo inammissibile, per carenza di giurisdizione, ogni azione preventiva e precauzionale finalizzata ad evitare la produzione del danno finanziario-contabile (C. conti, sez. giur. Campania, ord. 7 marzo 2016, n. 63, che si conforma alla giurisprudenza delle Sezioni unite e riunite ivi citata; del resto l’art 52, comma 6, c.g.c. attribuisce all’Amministrazione denunciante il potere di adottare tutte le misure necessarie ad evitare l’aggravamento del danno, nel presupposto implicito che il danno debba poi essere accertato da una sentenza di condanna di questa Corte successiva alla denuncia).
L’onere della prova di tutti gli elementi oggettivi (condotta, nesso di causalità e danno) e soggettivi (dolo o colpa grave) è a carico della Procura regionale attrice, mentre i convenuti sono tenuti ad asseverare le eccezioni sollevate in base al noto criterio di riparto fissato dall’art. 2697 c.c., implicitamente richiamato dall’art. 94 c.g.c. (il quale si riferisce all’“onere di fornire le prove che siano nella loro disponibilità concernenti i fatti posti a fondamento delle domande e delle eccezioni”).
A tal uopo sono utilizzabili tutti i mezzi di prova previsti dal Codice di procedura civile (ad eccezione dell’interrogatorio formale strumentale alla confessione giudiziale e del giuramento – art. 94, comma 4, c.g.c.) e da quello di giustizia contabile (art. 94-99 c.g.c.) il quale, ribadendo il carattere essenzialmente documentale del processo dinanzi questa Corte, considera la fase istruttoria meramente eventuale (l’art. 100 c.g.c. stabilisce che “terminata l’udienza di discussione il collegio giudicante, in camera di consiglio, pronuncia la sentenza”).
Il Codice, seguendo le riforme processualcivilistiche, recepisce il principio generale secondo il quale i fatti non contestati dalle parti costituite non abbisognano di prova (art. 95, comma 1, c.g.c.), mentre tutte le prove sono valutabili dal giudice secondo il proprio prudente apprezzamento (art. 95, comma 3, c.g.c.), non essendo ammesse le prove legali (l’art. 94, comma 4, c.g.c.). E’ utilizzabile la prova presuntiva ove i fatti prospettati per fondare domande ed eccezioni emergano non direttamente bensì solo indirettamente da fatti secondari noti, purchè siano soddisfatti i caratteri di gravità, precisione e concordanza e ferma restando l’inammissibilità della c.d. “praesumptio de praesumpto” .
Con particolare riguardo alla prova del nesso di causalità non si applicano i criteri vigenti in diritto penale, bensì quelli del diritto civile, essendo sufficiente asseverare che la condotta attiva o omissiva contestata sia più probabilmente che non causa del danno alla finanza pubblica (Cass., sez. un., sent., 11 gennaio 2008, n. 581; C. conti, sez. Campania, 14 ottobre 2013, n. 1349), fermo restando il principio della rilevanza giuridica di tutte le concause a meno che non venga identificato un fatto sopravvenuto idoneo a recidere il nesso di causalità (c.d. “causa sopravvenuta ad effetto escludente” – art. 41, comma 2, c.p.).