La (presunta) dipendenza ossessiva da shopping, non giustifica l’appropriazione di denaro pubblico

Corte dei Conti, sezione giurisdizionale per la Regione Toscana, sentenza n. 389 del 23 ottobre 2019

E’ emerso che una funzionaria aveva prelevato n. 21 vaglia cambiari presso la sede della Banca d’Italia di Firenze, per un totale di euro 55.907,20, successivamente convertiti in denaro nei giorni 26 – 29 febbraio / 8 marzo 2016 e che gli stessi sono stati tutti incassati dalla medesima.
Quando le sono state richieste spiegazioni in merito alla destinazione delle somme suddette, X ha provveduto ad esibire una serie di bonifici e/o pagamenti a favore di alcuni fornitori, con ciò volendo dimostrare che le somme di che trattasi fossero state destinate al pagamento di fornitori e/o utenze, secondo le causali indicate, o riversate, quali rimanenze contabili attive, su capitoli di spesa della sede distrettuale.
Dai successivi accertamenti eseguiti, però, le ricevute per i suddetti pagamenti si sono rivelate non corrispondenti al vero, in quanto relative a pagamenti già in precedenza effettuati, con ciò facendo presumere la distrazione a suo favore delle somme di che trattasi.
Per i fatti sopra esposti, con provvedimento del 18 luglio 2017, è stata irrogata la sanzione disciplinare del licenziamento senza preavviso, a decorrere dal giorno successivo e la Procura ha proceduto alla contestazione del danno erariale.
La difesa della convenuta ha rappresentato, anche attraverso la produzione delle relazioni di due medici specialisti, che la funzionaria sarebbe affetta da disturbo bipolare e dipendenza da shopping, tale da escludere la capacità di intendere e volere della stessa, già ricoverata per ben tre volte per i suddetti disturbi sofferti, in relazione alla sua autodeterminazione in relazione ai fatti di causa.
La Corte dei Conti, rigettando la tesi difensiva, ha stabilito che appare dirimente, in ogni caso, ai fini del decidere, quanto riferito dal teste Y in sede penale, proprio con riferimento alla condotta appropriativa e, quindi, dissimulatoria, tenuta dalla convenuta; alla specifica domanda relativa alla possibilità che avesse potuto avere la convenuta di rendersi conto o meno delle proprie azioni, (proprio quella condotta contestata oggi dalla pubblica accusa), il dott. Y ha testualmente risposto “…quello che lei mi segnala denota un processo cognitivo complesso e sempre cosciente, consapevole. L’atto in cui il paziente non è consapevole è l’atto di acquisto che deve essere fatto. Tutto ciò che sta intorno all’acquisto è una costruzione cognitiva cosciente. E’ l’atto, cioè entra nel negozio a comprare la borsa o a comprare le scarpe. Quello è l’atto incoercibile. Tutto il resto sta dentro la (…) Ci vuole un pensiero, non è un atto impulsivo in cui si producono a coprire (…..)”.
Emerge, quindi, in tutta la sua evidenza come la dipendenza ossessiva dallo shopping, per quanto grave ed invalidante non possa aver minimamente compromesso la capacità di intendere e volere della convenuta nel porre in essere le condotte oggi contestate. Un impulso irrefrenabile all’acquisto, sebbene possa alterare la capacità che ha il soggetto di autodeterminarsi nel momento in cui entra in un negozio, non può avere alterato la precedente e la successiva capacità cognitiva della convenuta che non solo ha sottratto, ma a distanza di tempo, ha anche artatamente preordinato una condotta successivamente dissimulatoria della prima.

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