Corte di Cassazione Penale, sentenza n. 15633 dep. 21 maggio 2020
Era rimasto accertato che nella mattina del 02/12/2003 l’avv. X aveva impedito all’avv. Y, con il quale condivideva lo studio, di accedere a quest’ultimo, prima inserendo la chiave all’interno della serratura e poi, quando il Y stava entrando nell’appartamento, sbarrando l’ingresso col proprio corpo.
Va premesso che l’elemento della violenza nel reato di cui all’art. 610 cod. pen. (violenza privata) si identifica in qualsiasi mezzo idoneo a privare coattivamente l’offeso della libertà di determinazione e di azione, potendo consistere anche in una violenza “impropria”, che si attua attraverso l’uso di mezzi anomali diretti ad esercitare pressioni sulla volontà altrui, impedendone la libera determinazione (v., ad es., Sez. 5, n. 4284 del 29/09/2015 – dep. 02/02/2016, G, Rv. 26602001, che ha ritenuto integrato il reato di violenza privata nella condotta di chi – il marito nei confronti della moglie, nella specie – impedisca l’esercizio dell’altrui diritto di accedere ad un locale o ad una delle stanze di un’abitazione, chiudendone a chiave la serratura).
A fronte di uno svolgimento dell’attività professionale del Y nei locali in esame, appare evidente che la condotta accertata dai giudici di merito si sia tradotta in un impedimento che ha costretto il ricorrente a tollerare di astenersi dall’avere accesso agli strumenti con i quali esercitava la propria professione. L’esistenza di ragioni che avrebbero consentito al X di escludere dall’immobile il Y può assumere rilievo, come si diceva, ai fini della qualificazione della condotta come esercizio arbitrario delle proprie ragioni, ma non certo a consentire una violenta condotta idonea ad incidere sulla libertà di autodeterminazione del secondo.