Corte Costituzionale, sentenza n. 234 del 9 novembre 2020
Il progressivo invecchiamento della popolazione e l’erosione della base produttiva rende via via più fragile il patto tra le generazioni, sul quale il sistema previdenziale si fonda.
In tale difficile contesto, occorre rammentare quanto affermato nella sentenza n. 173 del 2016, cioè che il principio di affidamento deve sempre più essere inteso in senso non astratto, «nella misura in cui il prelievo non risulti sganciato dalla realtà economico-sociale, di cui i pensionati stessi sono partecipi e consapevoli».
Orbene, atteso che il sistema contributivo con massimale è applicato essenzialmente su base anagrafica (oltre che, nei limiti consentiti, su base opzionale), segnatamente ai lavoratori privi di anzianità contributiva iscrittisi a forme pensionistiche obbligatorie dal 1° gennaio 1996 (art. 2, comma 18, della legge n. 335 del 1995), appare chiaro come alle finalità perseguite dall’art. 1, commi 261 e 263, della legge n. 145 del 2018 non siano estranee connotazioni intergenerazionali.
È in tal senso pertinente il costante richiamo della difesa dell’INPS agli obiettivi di ricambio generazionale nel mercato del lavoro che il legislatore ha ritenuto di conseguire per il tramite del pensionamento anticipato in «quota 100», istituto che l’art. 14 del d.l. n. 4 del 2019, come convertito, ha introdotto in via sperimentale per il triennio 2019-2021.
Il prefigurato collegamento fra detta sperimentazione orientata alla mutualità intergenerazionale e la provvista – sia pure assai modesta in termini relativi – creata mediante il prelievo di cui all’art. 1, comma 261, della legge n. 145 del 2018 fa emergere, tuttavia, un profilo di irragionevolezza relativo alla durata del contributo, essendo quest’ultima prevista per un quinquennio.
Tale durata, non solo risulta esorbitante rispetto all’orizzonte triennale del bilancio di previsione, fissato dall’art. 21 della legge 31 dicembre 2009, n. 196 (Legge di contabilità e finanza pubblica), ma costituisce anche un indice di irragionevolezza per sproporzione, poiché riguarda una misura che persegue le sue finalità proprio nell’arco del triennio.
È utile rammentare che la proiezione triennale della manovra di finanza pubblica ha costituito un parametro di accertamento dell’illegittimità costituzionale della proroga del “blocco” della contrattazione collettiva nel pubblico impiego, in base alla riscontrata specularità con la dinamica triennale delle tornate contrattuali (sentenza n. 178 del 2015).
Anche in ordine ai rapporti tra Stato, Regioni ed enti locali, e quindi in relazione alla programmazione dei risparmi sulla spesa pubblica aggregata, questa Corte ha evidenziato come l’osservanza delle ordinarie scansioni temporali dei cicli di bilancio consenta di definire in modo più appropriato il quadro delle esigenze e delle misure finanziarie, evitando di attribuire a queste ultime un’estensione temporale così ampia da sottrarne gli effetti di lungo periodo a una congrua valutazione parlamentare (sentenze n. 103 del 2018, n. 169 e n. 154 del 2017, n. 141 del 2016).
Nell’ambito strettamente previdenziale, è poi evidente la tendenza dell’ordinamento a non proiettare oltre il triennio valutazioni e determinazioni cui si addice uno spazio di osservazione più circoscritto, come testimonia l’evoluzione della disciplina del coefficiente di trasformazione del montante individuale dei contributi, di cui all’art. 1, comma 11, della legge n. 335 del 1995, la cui dimensione temporale è stata infatti ridotta da dieci anni a tre (art. 1, comma 15, della legge n. 247 del 2007), prima di essere ulteriormente limitata a due anni per gli aggiornamenti successivi a quello decorrente dal 1° gennaio 2019 (art. 24, comma 16, del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, recante «Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici», convertito, con modificazioni, nella legge 22 dicembre 2011, n. 214).
Occorre ancora rilevare che, come si evince dalla documentazione allegata agli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri, la riduzione delle pensioni di maggior importo è stata introdotta quale misura emendativa al disegno della legge di bilancio 2019 nell’ambito dell’interlocuzione del Governo italiano con la Commissione europea – la cui rilevanza sul piano della determinazione dei saldi complessivi è stata già evidenziata da questa Corte nell’ordinanza n. 17 del 2019 -, sulla base di impatti finanziari stimati appunto per il triennio 2019-2021, sicché, anche da questo punto di vista, la durata quinquennale del contributo si appalesa eccessiva.
Del resto, anche il raffreddamento della perequazione automatica è stato disposto dall’art. 1, comma 260, della legge n. 145 del 2018 per una durata triennale.