Consiglio di Stato, sentenza n. 1633 del 25 febbraio 2021
Il 5 novembre 1996 ad un dipendente pubblica era stata applicata la sanzione disciplinare del licenziamento senza preavviso, perchè colpevole del reato di falsità ideologica in atti pubblici per il quale era stato condannato in via definitiva con sentenza della V Sezione penale della Corte di Cassazione n. 1630 del 17 febbraio 1995.
Il dipendente impugnava con successo il licenziamento, in particolare eccependo che la contestazione degli addebiti, effettuata con nota n. 8948 del 10 luglio 1996, era tardiva, in quanto intervenuta oltre il termine di 20 giorni previsto dall’art. 25, co. 8, del C.C.N.L. del 1995, il quale rinvia ai termini decorrenti dalla data di conoscenza della sentenza.
L’amministrazione, infatti, era venuta a conoscenza, prima, della sentenza del Tribunale Penale di Roma del 22 ottobre 1991, poi, della sentenza della Corte di Appello di Roma in data 16 dicembre 1993 e, successivamente, per il tramite del proprio settore avvocatura, in data 27 marzo 1996, di quella della Corte di Cassazione, ma la contestazione degli addebiti era avvenuta solo con nota n. 8948 del 10 luglio 1996.
Infine, con determinazione del 21 luglio 2014 il dipendente è stato ormai posto a riposo con decorrenza dal 1 ottobre 2014 per sopraggiunti limiti di età, conseguendo il relativo trattamento pensionistico.
Il dipendente, pertanto, di fronte all’ennesimo ricorso dell’amministrazione chiedeva la declaratoria della sopravvenuta carenza di interesse all’appello, ricordando come la effettività della prestazione lavorativa svolta renda applicabile l’art. 2126 c.c., che produce effetto anche sul trattamento pensionistico
Il collegio ha ritenuto assorbente l’eccezione sollevata dall’appellato in ordine alla sopravvenuta carenza di interesse alla decisione dell’appello.
Come già chiarito dal Consiglio di Stato, «La regola, dettata dall’art. 2126 c.c., di ampia salvaguardia della prestazione resa in fatto dal lavoratore, a prescindere dalla validità e dalla stessa esistenza del titolo costitutivo, copre non solo la prestazione nel sinallagma retributivo, ma si estende anche agli ulteriori effetti pensionistici e previdenziali, che nella retribuzione stessa e nel suo assoggettamento a contribuzione trovano il momento genetico e ad essa sono legati in rapporto di consequenzialità, e trova inoltre applicazione anche per i periodi in cui il rapporto di impiego si è svolto in virtù di provvedimento cautelare del giudice amministrativo, cui poi ha fatto seguito il rigetto del ricorso» (Cons. Stato, n. 2285 del 2014).
Nessun vantaggio, pertanto, potrebbe rivenire all’Amministrazione appellante dall’accoglimento dei ricorsi stante che comunque rimarrebbe ferma finanche la posizione retributiva e contributiva previdenziale del dipendente, ormai in congedo da anni. Ciò anche in relazione alla sospensione cautelare disposta in verità in apparente dispregio della decisione sospensiva del T.A.R. – non potendo la normativa essere interpretata in senso elusivo della stessa, siccome sostenuto dalla Regione – non avendo essa pure trovato applicazione, come riconosciuto dall’appellato. In sintesi, né il licenziamento, disposto con provvedimento che almeno formalmente evocava normativa dichiarata incostituzionale, né la seconda sospensione cautelare (una volta confermata la legittimità della prima) hanno avuto alcuna effettiva conseguenza, essendo stata anche tale misura sospesa con ordinanza del T.A.R. del 17 aprile 1997, n. 1157, di accoglimento della domanda cautelare proposta dal ricorrente in primo grado, confermata in parte qua dall’ordinanza della Sezione IV del Consiglio di Stato n. 279 del 16 febbraio 1999, che ha accolto l’appello limitatamente agli effetti della non corresponsione degli emolumenti arretrati inerenti periodo di sospensione cautelare decorrente dal 14 giugno1994.
Per quanto sopra detto, il Collegio ritiene gli appelli improcedibili per sopravvenuta carenza di interesse, stante l’avvenuto collocamento a riposo del dipendente appellato a far data dal 1 ottobre 2014 e la rilevata mancanza di conseguenze, anche economiche, dei provvedimenti interinalmente disposti.