L’affidamento diretto in violazione delle regole di evidenza pubblica è ancora abuso d’ufficio


Corte di Cassazione, sentenza n. 8057 del 1 marzo 2021


La Corte di appello aveva condannato X in relazione al reato di cui all’art. 323 cod. pen., per avere nel mese di agosto del 2012, quale responsabile della polizia municipale del comune, in violazione di legge, affidato, con procedura diretta e senza alcuna preventiva determinazione della giunta municipale (intervenuta solo successivamente) il servizio di misurazione elettronica della velocità media dei veicoli: in particolare, per avere omesso di inserire degli ulteriori costi di servizio che avrebbero reso necessario un bando di gara; in tal modo il dipendente aveva procurato alla predetta società un ingiusto vantaggio patrimoniale derivante dall’affidamento diretto dell’appalto, con conseguente danno per la pubblica amministrazione.
Ha premesso il Supremo Collegio che il delitto di abuso d’ufficio è ora configurabile solamente nei casi in cui la violazione da parte dell’agente pubblico abbia avuto ad oggetto “specifiche regole di condotta” e non anche regole di carattere generale; solo se tali specifiche regole sono dettate “da norme di legge o da atti aventi forza di legge”, dunque non anche quelle fissate da meri regolamenti ovvero da altri atti normativi di fonte subprimaria; e, in ogni caso, a condizione che quelle regole siano formulate in termini da non lasciare alcun margine di discrezionalità all’agente, restando perciò oggi escluse dalla applicabilità della norma incriminatrice quelle regole di condotta che rispondano, anche in misura marginale, all’esercizio di un potere discrezionale (in questo senso v. Sez. 6, n. 442 del 09/12/2020, dep. 2021, Garau, non massimata; Sez. 5, n. 37517 del 02/10/2020, Danzè e altri).
Tali indicazioni legislative non sono applicabili al caso di specie.
E ciò perché all’odierno ricorrente è stata addebitata la violazione di una specifica regola di condotta prevista da una norma di legge, quella contenuta nell’art. 125 del d.lgs. aprile 2006, n. 163 (c.d. Codice degli appalti) che all’epoca dei fatti disciplinava il metodo che l’ente pubblico appaltante avrebbe dovuto seguire per l’individuazione del soggetto cui affidare l’esecuzione di opere e lavori pubblici, servizi e forniture; disposizione che dettava criteri tecnici che vincolavano la stazione appaltante ad adottare un criterio di scelta invece che un altro sulla base del risultato di quell’accertamento, senza lasciare al funzionario responsabile alcuna possibilità di scelta discrezionale.
Tale linea interpretativa del ‘nuovo’ art. 323 cod. pen. appare, peraltro, coerente con le conclusioni cui è pervenuta la più attenta giurisprudenza amministrativa che, valorizzando il dettato dell’art. 21-octies della legge 7 agosto 1990, n. 241, ha riconosciuto che il provvedimento amministrativo è annullabile, per violazione delle norme sul procedimento o sulla forma degli atti, non solo quando sia espressione di un potere vincolato in astratto, cioè disciplinato da disposizioni che non contemplano alcuno spazio di discrezionalità demandato all’amministrazione, ma anche quando esso sia esplicazione di un potere, in astratto discrezionale, che sia divenuto vincolato in concreto: vale a dire di un potere che, per le scelte che il pubblico agente ha compiuto nell’ambito di quello stesso procedimento amministrativo, non poteva che essere quello indicato dalla legge perché oramai caratterizzato da un avvenuto esaurimento di ogni spazio di discrezionalità (in questo senso, tra le altre Cons. Stato, n. 4089 del 17/06/2019).

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