Corte di Cassazione, quinta sezione penale, sentenza n 19969 del 19 maggio 2021
Con ordinanza del 30 settembre 2020, il Tribunale di Venezia, sezione per il riesame, confermava il provvedimento, del 24 luglio 2020, con il quale il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Belluno aveva rigettato la richiesta del locale pubblico ministero di applicare la misura cautelare interdittiva a:
– X, dirigente dell’unità operativa di otorinolaringoiatria dell’ospedale, per la violazione degli artt. 452, comma 1 n. 2, in relazione all’art. 438, e 61 n. 9 cod. pen., per avere, per colpa, disatteso le norme deontologiche e contrattuali;
– non comunicando, il 25 febbraio 2020, alla direzione medica del nosocomio il suo rientro dalla Thailandia (paese considerato a rischio epidemico dall’Organizzazione Mondiale della Sanità);
– comunicando, il 26 febbraio 2020, alla dirigente del Servizio igiene e sanità pubblica della competente ULSS, contrariamente al vero, di non avere effettuato tour turistici e di non essersi trovato in luoghi affollati, così da essere autorizzato alla permanenza in servizio;
– omettendo di comunicare al Dipartimento di malattie infettive della competente ULSS l’insorgenza, a partire dal 3 marzo 2020, di sintomi compatibili con il Covid 19, senza pertanto porsi in isolamento (come previsto dalle circolari del Ministero della salute e della Regione Veneto), e continuando ad esercitare la professione medica fino al 9 marzo 2020 effettuando visite che lo ponevano a stretto contatto con i pazienti, senza l’utilizzo della mascherina;
– così cagionato, avendo contratto il virus, la diffusione del medesimo, contagiando direttamente quattro persone (due pazienti e due medici) che, a loro volta, trasmettevano il virus ad altri;
-Y ed a Z, il primo quale presidente, la seconda quale componente dell’ufficio procedimenti disciplinari della ULSS competente, agendo nel procedimento intentato nei confronti del X a seguito dei fatti ricordati, la violazione (contestata al capo B) degli artt. 110, 61 n. 2 e 479, in relazione all’art. 476 cod. pen., per avere, in concorso fra loro ed al fine di commettere il delitto di favoreggiamento contestato al capo C, falsamente attestato, nel verbale della commissione del 1 aprile 2020, il fatto, che X era rientrato in servizio il 26 febbraio 2020 (e non il 25), così da poter concludere per la tempestività della sopra ricordata comunicazione (peraltro di per sé decettiva) fatta alla Dirigente del servizio igiene della ULSS.
Il Tribunale per il riesame, adito dal pubblico ministero, considerando anche le memorie prodotte dalla difesa, ed aderendo all’orientamento di questa Corte secondo il quale lo stesso, pur adito per le sole esigenze di cautela, deve riesaminare anche il profilo della ricorrenza dei gravi indizi di reità (Cass. 37086/2015), muovendo dal presupposto che il delitto contestato al capo A richiede, quale elemento essenziale della fattispecie, che l’evento sia cagionato dalla colpa dell’agente, considerava come non fosse stata raccolta prova convincente del nesso causale fra la condotta del X ed i contagi che gli erano stati attribuiti, posto che il morbo si era già altrimenti diffuso e come non fosse stato neppure provato alcun aggravamento, a cagione della condotta contestata all’indagato, della complessiva epidemia. Il Tribunale, poi, aveva condiviso il giudizio del Gip in ordine alla inconfigurabilità del delitto di falso contestato a Y e Z al capo B. Osservava, in primo luogo, come non potesse concretare il denunciato falso ideologico l’omissione delle ragioni che avevano portato ad archiviare il procedimento disciplinare intentato contro il X, godendo, sulla motivazione dell’atto, la commissione redigente, di ampia autonomia. Costituiva, invece, certamente una immutazione del vero l’indicazione della data del rientro in servizio del X nel 26 febbraio (quando aveva comunicato il rientro al Servizio igiene) piuttosto che il 25 marzo (come la commissione ben sapeva, essendo stata riportata tale data nella prima bozza del verbale). Una sicura falsità che però non concretava l’ipotizzato falso non essendo quello l’atto destinato a provare la verità del dato contestato (il giorno del rientro in servizio) che era perfettamente documentato negli atti propri, la timbratura del badge e gli atti conseguenti.