Corte di Cassazione, sentenza n 24213 del 8 settembre 2021
Ex art. 2233, comma 3, c.c., il patto di determinazione del compenso deve essere redatto in forma scritta, sotto pena di nullità. Si osserva che la norma non può ritenersi implicitamente abrogata dalla art. 13, comma 2, della 1. n. 247 del 2012: tale norma stabilisce che il compenso spettante al professionista sia pattuito di regola per iscritto. Infatti, secondo l’interpretazione preferibile, la novità legislativa ha lasciato impregiudicata la prescrizione contenuta nel terzo comma dell’art. 2233 c.c. In base a questa interpretazione, la norma sopravvenuta non si riferisce alla forma del patto, ma al momento in cui stipularlo: essa, cioè, stabilisce che il patto deve essere stipulato all’atto del conferimento dell’incarico (cfr. Cass. n. 11597/2015).
Si osserva che se il legislatore avesse realmente voluto far venir meno il requisito della forma scritta per simili pattuizioni, è ragionevole ritenere che avrebbe provveduto ad abrogare esplicitamente la previsione contenuta nel terzo comma dell’art. 2233 c.c., il quale commina espressamente la sanzione della nullità per quei patti che siano privi del requisito formale ivi prescritto.
Chiarito che il requisito formale è prescritto a pena di nullità, valgono le regole generali: a) la scrittura non può essere sostituita da mezzi probatori diversi (Cass. n. 1452/2019), neanche dalla confessione (Cass. n. 4431/2017), né è applicabile il principio di non contestazione (Cass. n. 25999/2018); b) ai sensi dell’art. 2725 c.c., la prova testimoniale è ammissibile nella sola ipotesi dell’art. 2724, n. 3, c.c., di perdita incolpevole del documento (Cass. n. 13459/2006; n. 13857/2016); c) l’inammissibilità della prova, diversamente da quanto avviene quando il contratto deve essere provato per iscritto (Cass., S.U., n. 16723/2000), è rilevabile d’ufficio e può essere eccepita per la prima volta anche in cassazione (Cass. n. 1352/1969; n. 281/1970).