Mancata partecipazione a programmi di verifica della qualità e sospensione dell’accreditamento: ciò che conta è la sostanza, non la forma dell’atto.

TAR Sicilia, sentenza n. 2892 del 21 settembre 2021

Con un ricorso la struttura sanitaria ricorrente – operante in regime di accreditamento con il Servizio Sanitario– ha impugnato il decreto dirigenziale con il quale l’Assessorato regionale della Salute ha disposto la sospensione temporanea dell’accreditamento, adottato in applicazione dell’art. 5 del D.A. n. 463/2003 per la presunta violazione dell’obbligo di partecipazione alla valutazione esterna di qualità (VEQ) in precedenti annualità.

Alcune questioni sono state già affrontate recentemente, sia in sede consultiva (vedi parere n. 89 del 4 marzo 2021) che in sede giurisdizionale (vedi da ultimo sentenza n. 268 e n. 269 del 29 marzo 2021), dal CGARS.

In particolare, sulla questione relativa alla necessità, alla funzione e all’equiparabilità della diffida alla comunicazione dell’avvio del procedimento, il parere (n. 89 del 4 marzo 2021) precisa che la “diffida” prevista dall’art. 5 del decreto assessorile invocato dalla ricorrente ha la funzione di avvisare il destinatario in ordine al fatto che in caso di persistente mancata acquisizione del requisito (e cioè in caso di inottemperanza all’obbligo di conformarsi alle regole) l’Amministrazione avvierà il procedimento volto alla sospensione dell’accreditamento.
Secondo l’impostazione in esame, la funzione della “diffida” è quella propria di un “invito ad adempiere”, corredato – della contestuale comunicazione di avvio del correlato procedimento sanzionatorio.
È indubbio che la diffida tanto da un punto di vista sostanziale che da un punto di vista formale ha reso edotta la struttura “in ordine al contenuto e al significato dell’atto che le era stato trasmesso, consistente – all’evidenza – in una intimazione formulata dall’Amministrazione nei suoi confronti”; ed ancora, appare inverosimile che non abbia compreso quali sarebbero state le conseguenze che sarebbero derivate dall’eventuale inadempimento e che quindi non sia stata posta in grado di partecipare al procedimento e di opporre le proprie ragioni con congruo anticipo rispetto al provvedimento conclusivo.
Viene precisato, altresì, che nel nostro ordinamento vige ed opera – di regola – il c.d. “principio della libertà della forma degli atti amministrativi”, da intendere nel senso che in mancanza di espresse e tassative disposizioni in contrario – e ferma l’obbligatorietà della forma scritta (salvo che per gli ‘ordini’, oralmente impartibili) e del rispetto delle forme stabilite per la corretta notifica o comunicazione degli atti – l’Amministrazione può redigere i provvedimenti secondo l’impostazione che ritiene più adatta a conferire ad essi efficacia.
In conclusione secondo il giudice di seconde cure il provvedimento impugnato resiste alle doglianze sotto ogni profilo:
– sotto quello sostanziale, in quanto il contenuto precettivo-provvedimentale della nota è stato proprio quello di un vero e proprio ‘invito ad adempiere’ (id est: ad acquisire il requisito mancante); o, ciò che è lo stesso, di una intimazione o ingiunzione;
– e sotto il profilo formale, in quanto nella nota in questione è stato espressamente dichiarato che essa veniva trasmessa in funzione di “diffida” (e cioè come atto equipollente a quello previsto dal decreto assessorile n. 463 del 17 aprile 2003);
– che nessuna norma disciplinava (e disciplina) specificamente la forma che la “diffida” (prevista dall’art.5 del decreto assessorile n.463/2003) avrebbe dovuto assumere,
– e che, d’altra parte, la nota inviata era perfettamente idonea a comunicare al destinatario ‘che cosa’ l’Amministrazione intendesse ottenere e “quali” sarebbero state le conseguenze della eventuale inottemperanza (assolvendo perfettamente alla funzione ingiuntiva e sollecitatoria per la quale era stata trasmessa).

Comments are closed.