Corte di Cassazione, sentenza n. 31204 del 2 novembre 2021
Quanto infine al terzo addebito (false dichiarazioni del lavoratore al medico, che poi le aveva certificate, di essere stato aggredito dal superiore gerarchico), giova ribadire che la giusta causa di licenziamento, quale fatto “che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto”, è nozione che la legge (allo scopo di un adeguare le norme alla realtà da disciplinare, articolata e mutevole nel tempo) configura con una disposizione (ascrivibile alla tipologia delle cosiddette clausole generali) di limitato contenuto, integrante un modulo generico che richiede di essere specificato in sede interpretativa, mediante la valorizzazione sia di fattori esterni relativi alla coscienza generale, sia di principi che la stessa disposizione tacitamente richiama. E che tali specificazioni del parametro normativo hanno natura giuridica, sicché la loro disapplicazione è deducibile in sede di legittimità come violazione di legge, mentre l’accertamento della concreta ricorrenza, nel fatto dedotto in giudizio, degli elementi che integrano il parametro normativo e le sue specificazioni, e così pure della loro concreta attitudine a costituire giusta causa di licenziamento, si pone sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al giudice di merito e incensurabile in cassazione se privo di errori logici o giuridici (Cass. 29 aprile 2004, n. 8254; Cass. 2 marzo 2011, n. 5095; Cass. 10 luglio 2018, n. 18170; Cass. 6 settembre 2019, n. 22358).
In particolare, la gravità di una mancanza commessa dal lavoratore deve essere valutata, ai fini disciplinari, non solo nel suo contenuto obiettivo, ma anche nella sua portata soggettiva, con riferimento alle particolari circostanze e condizioni in cui è stata compiuta, ai suoi modi, ai suoi effetti e all’intensità dell’elemento psicologico dell’agente (Cass. 28 ottobre 2000, n. 14257; Cass. 15 febbraio 2008, n. 3865).