Corte dei Conti, sezione giurisdizionale per la Lombardia, sentenza n. 352 del 27 dicembre 2021
Il divieto di accettare cariche in società aventi fine di lucro costituisce una specificazione del divieto di esercizio di attività commerciali o industriali e trova giustificazione nella necessità che il pubblico dipendente si astenga dall’esercizio di attività che da un lato lo espongano a compromissioni prestazionali ed economiche che potrebbero ledere la proficuità della sua prestazione istituzionale pubblica e, dall’altro lato, possano generare potenziali conflitti di interesse con l’amministrazione di appartenenza.
L’assunzione di cariche gestionali in società aventi finalità lucrative deve essere considerato, sulla base dell’ordinamento vigente, quale elemento oggettivo e automatico atto a perpetrare l’incompatibilità, senza che necessiti una valutazione sulla intensità dell’impegno o sui riflessi negativi riscontrabili sul rendimento nel servizio e sull’osservanza dei doveri di ufficio, equiparando la legge l’ipotesi all’esercizio di attività industriali e commerciali (cfr., sul punto, Cass. Civ., n.967/2006).
Ad avviso del Collegio, la potenzialità del conflitto da cui deriva la previsione dell’incompatibilità assoluta non può ritenersi condizionata in ragione del regime lavorativo a tempo pieno ovvero a tempo definito opzionato dal dipendente pubblico. L’ordinamento consente invero, a determinate condizioni, la compatibilità del pubblico impiego con lo svolgimento di attività libero – professionale, come nel caso dei professori universitari che esercitino l’opzione per il c.d. “tempo definito”, ma tale ampliamento alle sole attività libero – professionali e non già a quelle imprenditoriali e di amministrazione societaria, trova solida giustificazione nell’evidente ed indubbio minore rischio di compromissione conflittuale che, in astratto, l’attività libero – professionale può comportare rispetto ad una attività di gestione imprenditoriale. La scelta legislativa appare coerente con i principi costituzionali e non limita il diritto al lavoro e all’iniziativa privata, ma trova un ragionevole punto di equilibrio tra la necessità di funzionalizzare l’attività lavorativa del pubblico dipendente per assicurare il buon andamento dell’amministrazione e al contempo consentire, entro i predetti limiti invalicabili, un’articolazione più elastica del pubblico impiego.