L’art. 26, quinto comma, del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, contiene la disposizione speciale che regola l’accesso alla cartella di pagamento. Esso prevede che “Il concessionario deve conservare per cinque anni la matrice o la copia della cartella con la relazione dell’avvenuta notificazione o l’avviso di ricevimento ed ha l’obbligo di farne esibizione su richiesta del contribuente o dell’amministrazione”.
Il dato testuale è chiaro: individua nel Concessionario l’amministrazione che deve conservare il documento e lo detiene ai fini dell’accesso, circoscrive temporalmente gli obblighi di conservazione, individua i titolari del diritto d’accesso nelle parti del rapporto tributario (contribuente e amministrazione). L’unico elemento di incertezza è costituito dall’alternativa che la stessa pone tra due modalità di conservazione del documento: a) la copia della cartella, oppure b) la “matrice”. Il riferimento alla “matrice” è presente sin dalla prima emanazione della disposizione e allude, invero, a una modalità di produzione della cartella invalsa al tempo in cui il ruolo era ancora cartaceo (in sostanza la “matrice” era l’originale dalla cui compilazione scaturiva la “figlia” da notificare al contribuente).
Esso, una volta “dematerializzati” i ruoli in forza delle previsioni di cui al D.Lgs. 26 febbraio 1999, n. 46, e del D.M. 03 settembre 1999, n. 321, ha perso di significato e valenza applicativa: la cartella infatti è divenuto un documento estratto a mezzo stampa dal ruolo informatico, secondo un modello predeterminato in sede regolamentare nei suoi contenuti e nel suo standard. La modalità alternativa di conservazione dell’atto si è concentrata, dunque, di fatto, su una sola modalità: l’effettuazione della copia della cartella.
Il sistema informatico, giusto quanto chiaramente emergente dagli atti processuali, e del resto riconosciuto anche in sede giurisprudenziale (per tutte, Cass. sez. III, 23 giugno 2015, n. 12888), consente, oggi tuttavia, oggi la stampa di un unico originale, probabilmente per evitare la duplicazione accidentale o addirittura dolosa del titolo.
Ne discende la necessità di un’azione informatica o umana che consenta di tenere traccia fedele e conforme del detto originale. Certamente può trattarsi di una copia digitale, ossia il prodotto di una copia generata direttamente dal sistema informatico oppure scannerizzata dall’operatore a valle della stampa, ma dev’essere la riproduzione conforme dell’atto, non essendo possibile, ai fini dell’accesso, adempiere alla richiesta a mezzo del rilascio di un estratto di ruolo, ossia della mera stampa di dati estrapolati dal ruolo infortatizzato, ma non “organizzati” in cartella.