Corte Costituzionale, sentenza n. 128 dep. 26 maggio 2022
Con sentenza non definitiva del 26 agosto 2020 (r.o. n. 172 del 2020), il Consiglio di Stato, sezione quinta, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 23, 36, 53 e 81 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 1, del decreto-legge 24 giugno 2014, n. 90, in combinato disposto con l’art. 23-ter, comma 1, del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201.
Il Consiglio di Stato osserva che la decurtazione dei compensi professionali relativi al primo quadrimestre del 2015 e agli anni successivi, lamentata dal ricorrente, discende, «in modo automatico e vincolato», dall’applicazione dell’art. 9, comma 1, del d.l. n. 90 del 2014, come convertito, in combinato disposto con l’art. 23-ter del d.l. n. 201 del 2011.
Il censurato art. 9, infatti, riconduce espressamente all’oggetto dell’art. 23-ter «una particolare tipologia di attribuzione economiche, ossia i “compensi professionali corrisposti dalle amministrazioni pubbliche” […] agli avvocati e ai procuratori dello Stato (le cosiddette propine)», così giustificando «una lettura onnicomprensiva dell’inciso “a carico delle finanze pubbliche” […], che vi faccia ricadere ogni importo a qualunque titolo corrisposto […] da un’amministrazione pubblica».
Ne seguirebbe la rilevanza delle questioni di legittimità costituzionale delle norme censurate.
La Corte Costituzionale ha osservato che la condanna al pagamento delle spese di lite è fatta dal «giudice, con la sentenza che chiude il processo davanti a lui» a favore della parte (art. 91, primo comma, cod. proc. civ.) – che è quindi titolare del diritto di credito al relativo pagamento nei confronti della controparte soccombente – e non, salvo il caso di distrazione ex art. 93 cod. proc. civ., del suo difensore. Nella specie, la parte non è l’Avvocatura dello Stato, bensì l’amministrazione pubblica da essa patrocinata, che, se vittoriosa, ha diritto al rimborso delle spese legali nei confronti del soccombente. Una parte di queste (il 75 per cento) è poi ripartita tra gli avvocati e i procuratori dello Stato, come «componente retributiva aggiuntiva legata agli emolumenti per il “riscosso”» (sentenza n. 236 del 2017). Questi emolumenti, quindi, sono indubbiamente «a carico delle finanze pubbliche, senza che il vincolo di destinazione su di essi imposto dall’art. 21 del regio decreto 30 ottobre 1933, n. 1611 (Approvazione del testo unico delle leggi e delle norme giuridiche sulla rappresentanza e difesa in giudizio dello Stato e sull’ordinamento dell’Avvocatura dello Stato) e dall’art. 9, comma 4, del d.l. n. 90 del 2014, come convertito, possa mutarne la natura.
L’incidenza della corresponsione di questi emolumenti sulle finanze pubbliche è dimostrata dalla circostanza che le somme riscosse dall’Avvocatura dello Stato confluiscono, in entrata, sul capitolo 3518 capo X art. 1 del bilancio dello Stato, «per essere riassegnate, con decreti del Ministro del tesoro, ad apposito capitolo di spesa [il 4439], da iscrivere nello stato di previsione della Presidenza del Consiglio dei ministri, rubrica 41 – Avvocatura dello Stato, al quale sono imputati i relativi pagamenti» (art. 1, comma 1, della legge 23 dicembre 1993, n. 559, recante «Disciplina della soppressione delle gestioni fuori bilancio nell’ambito delle Amministrazioni dello Stato»).
La circostanza stessa che le somme riscosse dall’Avvocatura dello Stato a titolo di competenze e spese legali siano accertate in entrata nel bilancio dello Stato, comporta che debbano essere considerate risorse pubbliche e che, una volta erogate, integrino una spesa a carico delle finanze pubbliche.