Corte di Cassazione, quinta sezione penale, sentenza n. 23353 dep 15 giugno 2022
La condotta contestata a X consisteva nell’aver reso false dichiarazioni nel deporre, nella qualità di consulente tecnico di parte, dinanzi alla Corte di Assise. La falsità contestata concerneva le proprie qualità personali e professionali, in merito «ai titoli di studi conseguiti, affermando più volte, nel corso dell’escussione, di avere conseguito la laurea di ingegneria presso la facoltà di Ingegneria di Friburgo, laddove risultava avere invece conseguito il solo diploma di ragioneria e perito commerciale e non avendo mai concluso alcun corso di laurea universitario,
La Corte territoriale rilevava anche come la dichiarazione resa dovesse essere valutata in relazione alla funzione o al servizio esercitato dal destinatario, non commisurandola al contenuto della consulenza espletata – non essendo rilevante se per quelle valutazioni tecniche fosse necessario il titolo di ingegnere – bensì parametrandola alla circostanza che la dichiarazione resa dinanzi alla Corte di assise accreditava il consulente tecnico della difesa di una maggiore competenza e influenza, potendo indurre in errore l’organo giudiziario sulla preparazione culturale e accademica dell’esperto di parte e, quindi, sull’autorevolezza delle sue analisi tecniche, anche in considerazione della circostanza che il consulente del pubblico ministero non era né un ingegnere né un tecnico laureato.
Pertanto non vi è dubbio alcuno che correttamente la Corte di appello abbia qualificato la falsa dichiarazione quanto alla laurea come ulteriore qualità ai sensi dell’art. 496 cod. pen.
In merito alla censura inerente la rilevanza della falsità per il destinatario, va qui richiamato l’orientamento che « richiede che la dichiarazione del privato sia rilevante in relazione alla funzione o al servizio esercitato dal destinatario dell’informazione falsa, interpretazione, questa, in linea con il principio di offensività, che, come è noto, opera non solo sul piano della «previsione normativa», ma anche su quello della «dell’applicazione giurisprudenziale (offensività in concreto), quale criterio interpretativo-applicativo affidato al giudice, tenuto ad accertare che il fatto di reato abbia effettivamente leso o messo in pericolo il bene o l’interesse tutelato» (Sez. U, n. 28605 del 24/04/2008 – dep. 10/07/2008, Di Salvia, Rv. 239921)» (Sez. 5, Sentenza n. 16725 del 30/03/2016, De Donato, Rv. 266707 – 01). Nel caso in esame la Corte distrettuale non si è limitata ad affermare la falsità della dichiarazione resa, ma ha esteso la valutazione anche al profilo della rilevanza, con motivazione congrua e logica, in relazione all’ufficio pubblico esercitato, nel caso concreto, dalla Corte di Assise.
Pertanto può affermarsi il principio seguente: la condotta prevista dall’art. 496 cod. pen. presuppone che la falsa dichiarazione, quanto alla identità e alle qualità personali, non sia spontanea ma sia oggetto di una richiesta proveniente da un pubblico ufficiale o da un incaricato di servizio nell’esercizio delle funzioni. Inoltre, il bene della fede pubblica, tutelato dalla norma incriminatrice, implica che il giudizio di rilevanza della falsità, ai fini della verifica della offensività della condotta, sia da commisurarsi non solo alla finalità di identificazione, bensì anche in relazione a ulteriori finalità, di interesse oltre che per il pubblico ufficiale richiedente anche per ulteriori destinatari della dichiarazione medesima.