Corte dei Conti, Prima sezione centrale di Appello, sentenza n. 386 del 28 luglio 2022
La Procura regionale della Corte dei conti conveniva in giudizio il Prof. X, docente ordinario a “tempo pieno”, per sentirlo condannare al pagamento in favore dell’Ateneo trentino di due distinte voci di danno: la prima di € 6.150,00 per il mancato riversamento, ex art. 53, commi 7 e 7-bis, del d.lgs. n. 165/2001, dei compensi percepiti per lo svolgimento di attività extra istituzionali ritenute incompatibili con il regime “a tempo pieno” e comunque non autorizzate, né comunicate all’Ateneo; la seconda di € 46.578,02, corrispondente alla restituzione della differenza stipendiale tra quanto percepito come docente a “tempo pieno” e quanto avrebbe percepito quale docente a “tempo definito”.
L’art. 6 della legge 30 dicembre 2010, n. 240 stabilisce, al comma 9, che l’esercizio di attività libero-professionale è incompatibile con il regime di tempo pieno. Al comma 10, consente, poi, per la parte che qui interessa, due tipologie di attività esterne per i docenti “a tempo pieno”:
1. “attività di collaborazione scientifica e di consulenza”, liberamente esercitabili (comma 10, primo periodo);
1. “funzioni didattiche e di ricerca”, previa autorizzazione del Rettore (comma 10, secondo periodo).
In linea con tale quadro normativo di riferimento, la sentenza di prime cure ha ben evidenziato che i professori che esercitano l’opzione per il “tempo pieno” non possono svolgere in maniera abituale attività libero professionale.
Valgono, in proposito, le considerazioni già espresse dalla giurisprudenza contabile e da questa stessa Sezione di appello, secondo cui “per i professori a tempo pieno, rimane il divieto di espletamento di attività libero professionale in assoluto, se svolta con continuità, e la necessità di previa autorizzazione dell’Ateneo di appartenenza se svolta occasionalmente … Diversamente opinando (…), il divieto sarebbe facilmente aggirabile, per i professori a tempo pieno, mediante l’indicazione come mere consulenze incarichi che, invece, hanno natura libero professionale” (Sez. I App. sent. n. 80/2017).
Con riferimento alle “attività di collaborazione scientifica e di consulenza”, indicate dal comma 10, la giurisprudenza ha chiarito che “La consulenza non può fornire risoluzione a problematiche concrete; dev’essere resa a titolo personale e non in forma organizzata; è di natura assolutamente occasionale; non può essere caratterizzata dal compimento di attività tipicamente riconducibili alle figure professionali di riferimento; costituisce una prestazione resa dal docente universitario in quanto studioso della disciplina, nelle tematiche connesse al proprio ambito disciplinare; si conclude con un parere, una relazione o uno studio” (Sez. Calabria, sent. n. 112/2020). E ancora: “La consulenza, come liberalizzata dal comma 10 dell’art. 6 della legge n. 240 del 2010, non potrebbe mai essere incentrata sulla risoluzione di problematiche concrete, né essere volta a soddisfare unicamente interessi e necessità di soggetti terzi committenti” (Sez. Calabria, sent. 396/2020 confermata sul punto in appello da Sez. II, sent. n. 221/2022).
Le “funzioni didattiche e di ricerca” non sono liberamente espletabili, né sono, di per sé, vietate dalla normativa; sono assoggettate alla preventiva autorizzazione del Rettore, posto che l’attività di ricerca scientifica presuppone un impegno più costante della mera consulenza, presso un ente diverso dall’università di appartenenza.
Lo spirito della legge è quello di evitare situazioni di conflitto di interesse con l’Università di appartenenza; proprio a questo fine, è previsto che l’attività debba essere preventivamente autorizzata dal Rettore, che dovrà valutare non soltanto la sussistenza di possibili conflitti di interesse, ma anche che sia ragionevolmente prevedibile che l’attività non vada a “detrimento delle attività didattiche, scientifiche e gestionali” espletate dal docente presso l’università di appartenenza.
Se si desse un’interpretazione più estensiva della normativa, un docente “a tempo pieno” sarebbe libero di fare qualsiasi attività genericamente definita “di consulenza” o “di ricerca”, retribuita da soggetti pubblici o privati; il che sarebbe in aperto contrasto con lo spirito dello stesso comma 10 e, in particolare, con il richiamato comma 9.Trova, dunque, applicazione l’art. 53, commi 7 e 7-bis, del d.lgs. n. 165/2001 e il conseguente obbligo di riversamento dei compensi percepiti dal docente.