Come è noto, l’art. 6 del d.l. 90/2014, convertito nella l. n. 114 del 2014, ha introdotto nuove disposizioni restrittive in materia di incarichi per i soggetti in quiescenza, modificando la disciplina contenuta nell’art. 5, comma 9^ del d.l. n. 95/2012, convertito nella legge 135/2012.
In sintesi, la normativa del 2012, per evitare fenomeni corruttivi, vietava unicamente gli incarichi di consulenza attinenti ad attività svolte dal dipendente presso l’Amministrazione conferente antecedentemente al suo collocamento in quiescenza. La citata norma del 2014 ha sostanzialmente riscritto la disciplina in questione, da un lato, includendo nel suo ambito di applicazione i lavoratori privati, dall’altro estendendo il divieto agli incarichi dirigenziali e direttivi, nonché alle cariche in amministrazioni controllate e prevedendo un’eccezione solo per gli incarichi e le collaborazioni a titolo gratuito, col limite di un anno per quelli dirigenziali e direttivi.
Lo scopo della novella normativa risponde dunque, secondo la dottrina e la giurisprudenza, oltre che al contenimento della spesa pubblica, all’esigenza di favorire il ricambio generazionale nella Pubblica amministrazione,
Con riguardo al primo aspetto l’Amministrazione ha sostenuto che il funzionario in quiescenza del quale intenderebbe avvalersi potrebbe essere utilizzato “per supportare l’ente e per svolgere attività di formazione operativa per il personale dell’ente”. A tale riguardo occorre verificare se l’opera che si intende prestare consista o meno in attività di “consulenza” – corrispondente ad attività già in precedenza svolte presso la stessa Amministrazione – espressamente vietata dalla normativa in applicazione. Ebbene, la risposta a tale quesito non può che essere affermativa, ove si consideri che il concetto di consulenza implica essenzialmente un supporto professionale svolto a favore di altro soggetto, che necessita di competenza qualificata per essere adiuvato o “formato” in determinate materie specialistiche.
Infine, per maggiore chiarezza, come più volte è stato specificato dalla giurisprudenza (Sezione di controllo per la Lombardia, deliberazione n. 180 del 6 giugno 2018) l’effetto della normativa in applicazione ha portata generalizzata; mentre, a titolo esemplificativo, esulano dall’ambito del divieto di conferire consulenze retribuite, gli incarichi di docenza e quelli di membro di commissioni esaminatrici, i quali non possono essere in alcun modo assimilati ad attività interne all’ente che possono, invece (nell’ottica almeno teorica e programmatica del legislatore), essere assicurate col ricambio generazionale.
Non può pertanto essere condivisa la posizione assunta dall’Amministrazione, allorché – a supporto della possibilità del conferimento dell’incarico retribuito in questione – sostiene che sarebbe venuto meno il divieto del conferimento di incarichi di collaborazione di cui all’art. 7, comma 6^ del d. lgs. n. 165/2001. Infatti, tale rilievo si presenta formulato in modo apodittico, giacché non è tanto in discussione la più generale possibilità del conferimento di incarichi retribuiti a soggetti esterni all’Amministrazione, quanto quella di affidarli a soggetti in quiescenza: questione che forma, per l’appunto, oggetto della restrizione normativa operata dall’art. 6 del d.l. 90/2014, di cui è stata chiesta l’interpretazione a questa Sezione. Alla stregua di siffatte argomentazioni ed in conformità al parere di questa Sezione n. 90/2020, si deve ritenere che l’incarico professionale retribuito che il comune intende conferire, rientri effettivamente nella sfera del divieto contemplato dalla normativa in applicazione