Anche il certificato medico di malattia, se emesso all’estero, deve avere la “Apostilla”, altrimenti è privo di valore giuridico

Corte di Cassazione, sentenza n. 24697 del 11 agosto 2022

X, dipendente della Y spa dal 2008, con qualifica di operaia addetta alle pulizie (II livello CCNL), in data 6.10.2016 le era stata contestata l’assenza ingiustificata dal 10 settembre al 19 ottobre 2016 ed era stata, per questo, licenziata per motivi disciplinari senza preavviso, contestandole la circostanza di non avere avvisato i suoi superiori e di non avere giustificato validamente la sua assenza. In particolare, la lavoratrice, nel periodo in contestazione, si trovava in Marocco e a giustificazione della propria assenza aveva inviato al datore di lavoro due certificati medici, debitamente tradotti in italiano, ma privi della “Apostilla”, ossia della formalità richiesta dalla Convenzione dell’Aja del 5.10.1961 ai fini di attestare la veridicità della firma sull’atto, il titolo in virtù del quale l’atto era stato firmato e l’autenticità del sigillo o del bollo.

La Corte distrettuale ha rilevato che i certificati medici rientravano tra gli atti pubblici per i quali, ai sensi della Convenzione dell’Aja del 1961, era esclusa la necessità della legalizzazione; che nel caso in esame si verteva in una ipotesi di assenza dal lavoro non regolarmente giustificata ma non del tutta priva di giustificazione; che la mancata legalizzazione dei certificati medici non poteva essere imputata a negligenza della lavoratrice in quanto la Convenzione dell’Aja era stata recepita dal Marocco il 14.8.2016, solo pochi giorni prima della malattia in questione; che la giusta causa, nelle fattispecie come quella di cui è processo, andava ravvisata solo nell’ipotesi di assenza priva di giustificazione sostanziale; 

Invece la Corte di Cassazione ha ricordato che, “in base alla Convenzione sull’abolizione della legalizzazione di atti pubblici stranieri, adottata a l’Aja il 5 ottobre 1961, e ratificata dall’Italia con legge n. 1253 del 1966, la dispensa dalla legalizzazione è condizionata al rilascio, da parte dell’autorità designata dallo Stato di formazione dell’atto, di apposita “Apostille”, da apporre sull’atto stesso, o su un suo foglio di allungamento, secondo il modello allegato alla Convenzione, con la conseguenza che, in assenza di tale forma legale di autenticità del documento, il giudice italiano non può attribuire efficacia validante a mere certificazioni provenienti da un pubblico ufficiale di uno Stato estero, pur aderente alla Convenzione”.

La certificazione medica inviata dalla X, per avere valore giuridico in Italia avrebbe dovuto contenere, quindi, la Apostille; in caso negativo, la certificazione è priva di ogni valore giuridico in un Paese straniero non assumendo alcuna rilevanza la eventuale traduzione in italiano e, pertanto, non è idonea a giustificare l’assenza perché non è certificata tanto la provenienza dell’atto da un soggetto abilitato allo svolgimento della professione sanitaria, quanto la diagnosi e la prognosi di malattia come attestate da un soggetto competente.

Di fronte a tale documento, la impugnata pronuncia è errata in diritto anche nella parte in cui si afferma che al datore di lavoro non sarebbe stato precluso di verificare, anche successivamente, la legittimità dell’assenza. In caso di assenza ingiustificata, infatti, al datore di lavoro grava l’onere di provare la condotta che ha determinato l’irrogazione della sanzione disciplinare e, quindi, di provare il fatto nella sua oggettività, mentre grava sul lavoratore l’onere di provare gli elementi che possano giustificarlo (Cass. n. 16597/2018; Cass. n. 2988/2011). Non è corretto sostenere che il datore di lavoro avrebbe potuto egli verificare la effettiva insussistenza della malattia, stante il vizio sostanziale della documentazione medica inviata a giustificazione dell’assenza del lavoratore.

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