Corte di Cassazione, sesta sezione penale, sentenza n 18481 dep 10 maggio 2022
Va rilevato che nel caso in esame la Corte di appello, in modo carente e viepiù contraddittorio, ha qualificato come violenza privata la condotta dall’imputato consistita nell’invito rivolto alle persone offese di rassegnare le dimissioni dal loro incarico di commissari straordinari.
La sentenza impugnata ha infatti accertato che, per il carattere fiduciario dell’incarico, sussisteva “la piena discrezionalità dell’autorità politica di nominare e revocare” i commissari straordinari. Quindi la scelta della loro revoca non era soggetta, secondo la Corte di appello, a termini e condizioni.
La circostanza fattuale della piena discrezionalità dell’autorità politica di revocare i commissari straordinari – che non risulta contrastata dalla parte civile (che si limita a criticare l’aspetto della sola “utilità”) e che la Corte di legittimità non può sindacare se non con un’incursione nel merito della vicenda processuale – consente di escludere che la mera prospettazione alle persone offese della alternativa tra la rassegnazione delle loro dimissioni e la revoca del loro incarico costituisse per le stesse un danno “ingiusto” nel senso sopra chiarito, posto che costoro dovevano limitarsi a recepire la scelta discrezionale dell’amministrazione di far cessare unilateralmente il rapporto fiduciario, senza alcuna possibilità di opporsi ad essa.
Né alla stregua di quanto accertato in sede di merito può ritenersi che la illiceità della condotta sia nella specie derivata piuttosto dall’esercizio “distorto” di una facoltà legittima (Sez. 5, n. 8251 del 26/01/2006 Rv. 233226): la revoca dell’incarico era stata infatti prospettata alle persone offese in funzione della necessità di nominare nuovi designati, individuati intuitu personae, e quindi per una finalità compatibile con “la piena discrezionalità” riconosciuta dalla Corte di appello all’autorità politica di nominare e revocare i commissari.
Anche l’attivazione di controlli sulla gestione dei commissari, con possibili strascichi giudiziari, non era di per sé idonea a far acquistare una valenza illecita alla condotta dell’imputato, trattandosi di una prerogativa legittima dell’autorità politica, non correlata dalla Corte di appello in modo irnplausibile allo status delle persone offese (soggette cioè a controlli sul loro operato). A ciò va aggiunto che tantomeno poteva costituire una condotta di coercizione psichica il servirsi di “toni lesivi della professionalità” delle persone offese. In definitiva, la ricostruzione dei fatti non consente di configurare nella condotta dell’imputato quel comportamento o atteggiamento “idoneo ad incutere timore ed a suscitare la preoccupazione di subire un danno ingiusto onde ottenere che, mediante tale intimidazione, il soggetto passivo sia indotto a fare, tollerare od omettere qualcosa” (Sez. 2, n. 3609 del 18/01/2011, Rv. 249162). Le frasi rivolte alle persone offese risultavano invero prive di valenza minatoria sia per il loro contenuto sia perché il male minacciato era privo dell’ineludibile connotato di ingiustizia.