Corte dei Conti, sezione giurisdizionale per la Campania, sentenza n. 55 del 26 gennaio 2023
La vicenda all’odierno esame prende abbrivio dalla notizia di danno pervenuta alla Procura erariale in data 5 luglio 2016 dal Tribunale, a seguito della sentenza di condanna del dr. X ad anni due e mesi 4 di reclusione e all’interdizione dai pubblici uffici per anni 1, per il delitto di peculato continuato, in quanto, nella qualità di dirigente responsabile dell’U.O. di Radiologia, si sarebbe illecitamente appropriato della quota dei corrispettivi incassati dai pazienti per l’esecuzione di indagini radiografiche ed ecografiche a scopo diagnostico, eseguite presso lo studio medico 8 in regime di attività libero professionale intramoenia (c.d. “ALPI”).
Più in particolare, i Giudici penali avrebbero accertato il totale inadempimento agli obblighi imposti dal regime c.d. “ALPI” da
parte del medico convenuto, il quale, anziché utilizzare i bollettari fiscali rilasciati dall’ASL di appartenenza e riversare la metà dei corrispettivi incassati dai pazienti entro 30 giorni dall’esecuzione della visita, avrebbe invece instaurato un regime di contabilità parallela, utilizzando un bollettario privo di valenza fiscale ed avrebbe omesso di riversare la quota spettante all’ente pubblico, dissimulando l’assenza di prestazioni rese per il tramite del canale di fatturazione ufficiale.
Per priorità logico-giuridica, il Collegio ritiene di dover scrutinare l’eccezione difensiva sulla carenza del rapporto di servizio con l’amministrazione danneggiata, scaturente dalla natura privatistica del denaro non riversato dal convenuto in regime di intramoenia, in quanto la censura, seppur apparentemente mossa nei confronti di un elemento costitutivo della responsabilità amministrativa – e dunque afferente al merito – ha significative refluenze sulla stessa giurisdizione di questa Corte.
In sede di memoria di costituzione, osserva, in particolare, la difesa che “il dott. X è stato condannato per un reato commesso non come dipendente della Pubblica Amministrazione. Le condotte di peculato fanno riferimento non all’attività di dirigente medico ma a quella libero-professionale intramuraria, che ha certamente natura privatistica”.
L’argomentazione, benché suggestiva, non coglie nel segno.
A questo riguardo, la sentenza del Tribunale afferma, testualmente, che: “(..) integra il delitto di peculato la condotta del medico il quale, avendo concordato con la struttura ospedaliera lo svolgimento dell’attività libero – professionale consentita dal d.p.r. n. 270/87 (cd. intramoenia), e ricevendo per consuetudine dai pazienti (anziché indirizzarli presso gli sportelli di cassa dell’ente) le somme dovute per la sua prestazione, ne ometta il successivo versamento all’azienda sanitaria. Infatti, per quanto la qualifica di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio non possa essere riferita al professionista che svolga attività intramuraria (la quale è retta da un regime privatistico), detta qualità deve essere attribuita a qualunque pubblico dipendente che le prassi e le consuetudini mettano nelle condizioni di riscuotere e detenere denaro di pertinenza dell’amministrazione (cfr. Cass. n. 3390-f3.-1 ; Cass. n. 2969/04). In particolare, si è precisato che nella specie assume rilevanza non già l’attività professionale, ma la virtuale sostituzione del medico ai funzionari amministrativi nell’attività pubblicistica di riscossione dei pagamenti”.
Alla luce di quanto appena esposto, non appare revocabile in dubbio che risulti integrato il reato di peculato e non quello di truffa aggravata”.
Sempre ai fini della valutazione equitativa, va inoltre considerata la condotta collaborativa del dott. X, che ha restituito una parte delle somme (due tranches, rispettivamente, di euro 4.350,00 e di euro 595,00) e che ha rassegnato le proprie dimissioni dal servizio.
Alla stregua dei richiamati parametri di valutazione, il Collegio ritiene che il danno risarcibile (da quantificare in misura certamente superiore al profitto del danno da peculato ai fini di una reale afflittività e di un effettivo ristoro del pregiudizio subito dall’amministrazione), debba essere equitativamente rideterminato nella misura di euro 15.000,00 già rivalutati.
Va disattesa la richiesta di esercizio del potere riduttivo, in quanto preclusa dal disvalore insito nelle condotte delittuose poste in essere (ex plurimis, sez. III/A, n. 66/2017).