Consiglio di Stato, sentenze n. 6844-6848 del 13 luglio 2023
L’oggetto del presente giudizio si individua nella pretesa sostanziale fatta valere dalla società appellante, che ha chiesto, con la sua domanda del 17 dicembre 2021, la revisione dei prezzi, stante il vertiginoso aumento del costo dell’energia elettrica, che aveva raggiunto nel mese di dicembre 2021 il prezzo di 281,24 euro/MWh, rappresentando che il solo incremento dei costi dovuto all’energia elettrica era pari al 130% del corrispettivo previsto in convenzione per la fornitura dell’ossigeno liquido medicinale e pari al 164% del corrispettivo previsto in convenzione per la fornitura dell’azoto medicinale
E’ utile premettere alcune considerazioni di carattere generale sul quadro giuridico vigente al momento della conclusione della convenzione. L’istituto della revisione dei prezzi ha attraversato negli ultimi decenni una fase di “crisi” ed è stato sottoposto a forti critiche per la sua incidenza negativa sull’andamento dei costi gestionali delle amministrazioni.
Il codice del 2016 si è limitato, nell’art. 106, a facoltizzare l’inserimento della previsione nei documenti di gara, ma solo a condizione che la modifica del contratto durante il suo periodo di efficacia non fosse tale da alterare le condizioni della gara, dovendo altrimenti essere esperita una nuova procedura di affidamento. Solo di recente, sull’onda della crisi pandemica e della forte impennata dei costi dell’energia e delle materie prime per la guerra in Ucraina, l’istituto è stato reintrodotto con numerose norme speciali (contenute per lo più nella decretazione d’urgenza e nelle ultime leggi annuali di bilancio). Il nuovo codice dei contratti pubblici, di cui al d.lgs. n. 36 del 2023, lo ha nuovamente ammesso a sistema (art. 60: “1. Nei documenti di gara iniziali delle procedure di affidamento è obbligatorio l’inserimento delle clausole di revisione prezzi”).
La logica del d.lgs. n. 50 del 2016, vigente al tempo dell’adozione dell’atto qui impugnato, era quella di evitare che la clausola revisionale potesse alterare in modo sostanziale il contratto riflettendosi negativamente sulla effettività delle condizioni concorrenziali della gara esperita, sicché la regola generale era il divieto di clausola revisionale salvi i casi derogatori tassativamente previsti, nei quali fosse possibile una revisione “senza una nuova procedura di affidamento”, a condizione che tale revisione non apportasse “modifiche che avrebbero l’effetto di alterare la natura generale del contratto o dell’accordo quadro”. La norma del 2016, infatti, si raccorda al diritto dell’Unione europea che, a tutela della concorrenza, limita i meccanismi di revisione dei prezzi degli appalti pubblici per evitarne i potenziali effetti elusivi del meccanismo della gara pubblica (art. 72 della direttiva 2014/24/UE del 26 febbraio 2014; Corte di Giustizia 19 giugno 2008, C454/06, 17 settembre 2016, C-549/14, 19 aprile 2018, causa C-152/17).
Ciò premesso, emerge in primo luogo – contrariamente a quanto sostenuto dal primo giudice, la cui statuizione sul punto va dunque riformata – la non applicabilità alla fattispecie dell’art. 106, comma 1, lettera a), del codice dei contratti pubblici, e ciò in primo luogo perché non sussiste il presupposto di base per l’applicabilità di tale disposizione, costituito dalla previsione delle modifiche contrattuali “nei documenti di gara iniziali in clausole chiare, precise e inequivocabili”. Nel caso in esame, come detto, tali clausole chiare, precise e inequivocabili mancano anche nella convenzione stipulata all’esito della procedura selettiva, sicché l’applicazione della previsione normativa in esame, nella fattispecie, si tradurrebbe inevitabilmente in una violazione del principio di immodificabilità delle condizioni di gara, che ispira per intero la disciplina del codice del 2016 in materia di modifiche successive del contratto.
Esclusa l’applicabilità, quale parametro normativo di riferimento, della lettera a) del comma 1 dell’art. 106 del codice dei contratti pubblici, cadono, siccome infondate, le obiezioni sollevate dalla società ARIA in ragione del mancato soddisfacimento, nella domanda della società richiedente, delle condizioni previste dalla norma in questione (in particolare, per la mancata acquisizione del parere dell’Autorità di regolazione di settore o, in mancanza, dell’AGCM). Risulta di conseguenza da emendare la sentenza appellata nella parte in cui ha aderito a tale impostazione e ha respinto i motivi di doglianza al riguardo formulati dalla società ricorrente.
La semplice lettura delle sopra riportate disposizioni dimostra che l’unico spazio applicativo utile per la fattispecie qui dedotta potrebbe rinvenirsi nella previsione del comma 2 dell’art. 106.
Non può infatti trovare accoglimento il riferimento all’ipotesi di cui alla lettera c) del comma 1 dell’art. 106 perché, come di recente posto in luce dalla condivisibile giurisprudenza di questo Consiglio di Stato (Cons. Stato, sez. IV, 31 ottobre 2022, n. 9426, di conferma di Tar Lombardia, sezione staccata di Brescia, 10 marzo 2022, n. 239), «Mentre la lettera a) prende in esame e disciplina le “variazioni dei prezzi e dei costi standard” e risulta dunque immediatamente attinente alla fattispecie concreta, la lettera c) fa testuale ed espresso riferimento a quelle “modifiche dell’oggetto del contratto” che si correlano alle “varianti in corso d’opera”», che «sono quelle modifiche che riguardano l’oggetto del contratto sul versante dei lavori da eseguire, (arg. da Cons. Stato Sez. II, 28 agosto 2020, n. 5288; Sez. V, 02 agosto 2019, n. 5505; Sez. VI, 19 giugno 2017, n. 2969; ma, in linea generale, nulla preclude di riferire la disciplina in questione anche alle forniture da erogare o ai servizi da svolgere) . . . Le modifiche dell’oggetto del contratto sul versante del corrispettivo che l’appaltatore va a trarre dall’esecuzione del contratto vanno invece sussunte nell’ambito della fattispecie di cui alla lettera a), che disciplina gli aspetti economici del contratto con testuale riferimento alle “variazioni dei prezzi e dei costi standard”». Nel caso di specie in esame, infatti, non vi è alcuna modifica dell’oggetto del contratto e non si può certo parlare di varianti in corso d’opera.
Resta da valutare il caso contemplato dal comma 2 dell’art. 106 (in base al quale i contratti possono parimenti essere modificati senza necessità di una nuova procedura se il valore della modifica è al di sotto delle soglie fissate all’articolo 35 e del 10 per cento del valore iniziale del contratto). Orbene, ritiene il Collegio che tale ipotesi – contrariamente a quanto ritenuto dal primo giudice – sia in astratto applicabile al contratto di fornitura oggetto di lite. Essa, tuttavia, non è applicabile in concreto nel caso specifico oggetto di causa, atteso che la società appellante ha chiesto nella sua domanda di revisione incrementi notevolmente superiori ai limiti posti dal predetto comma 2. In questo senso, l’appello merita un accoglimento solo parziale, con riforma della sentenza gravata nella parte in cui ha negato in assoluto l’applicabilità del predetto comma 2 al contratto oggetto di causa, ma nei limiti della riconosciuta facoltà della parte di rimodulare opportunamente la sua richiesta, nei termini anzidetti, e non anche nel senso della fondatezza della sua pretesa a conseguire i maggiori aumenti come effettivamente richiesti. In altri e più espliciti termini, la domanda revisionale, così come formulata dalla società ricorrente, in quanto esorbitante dai limiti di cui al comma 2 dell’art. 106, andava comunque respinta, sia pur con una diversa motivazione. Essa potrà in ogni caso essere correttamente riproposta, nei limiti dei termini prescrizionali desumibili dal diritto comune dei contratti.Infine, non può ritenersi che l’esito del giudizio, così come definito in base alla suesposta motivazione, conduca a risultati iniqui, ingiustamente incidenti sull’equilibrio economico delle parti contrattuali (addirittura incidendo sulla natura corrispettiva e sul titolo oneroso del contratto di fornitura). La società ricorrente, infatti, oltre a giovarsi (sussistendone i presupposti) degli aiuti e dei sostegni economici e finanziari erogati dallo Stato con la surrichiamata decretazione d’urgenza (ad es., i contributi pubblici per l’acquisto dell’energia elettrica in favore delle imprese energivore di cui al decreto-legge n. 115 del 2022, così detto “Decreto Aiuti bis”, che prevede un credito di imposta del 25 per cento per le spese sostenute per la componente energetica acquistata), potrà, come detto, domandare l’applicazione dell’ipotesi revisionale del comma 2 dell’art. 106 citato, ancorché nei limiti quantitativi ivi previsti.