Corte dei Conti, sezione giurisdizionale per il Veneto, sentenza n. 28 del 10 aprile 2024
Con atto di citazione ritualmente notificato la Procura regionale conveniva innanzi a questa Sezione giurisdizionale il sig. X, professore ordinario in regime di tempo pieno dell’Università degli studi di Padova, ora in quiescenza, per sentirlo condannare al risarcimento in favore del suddetto Ateneo della somma complessiva di euro 1.091.090,00 di cui euro 135.375,83 quale differenza retributiva indebitamente percepita e euro 955.714,86 pari ai compensi percepiti per incarichi non autorizzabili
Emerge, infatti, per tabulas dall’esame della documentazione acquisita presso l’Università degli studi di Padova che, nella maggior parte dei casi, la lettera di incarico e/o il contratto di collaborazione venivano allegati all’istanza di autorizzazione e che le istanze erano tutte gestite dal medesimo Ufficio (Concorsi e carriere) dell’amministrazione dell’Università degli studi di Padova.
Dunque, l’Ateneo conosceva, necessariamente, non solo l’entità degli impegni di docenza del convenuto, titolare di più insegnamenti per ogni anno accademico, ma anche gli ulteriori incarichi accademici e/o comunque connessi al ruolo rivestito ed era nella condizione di valutare la compatibilità degli incarichi extraistituzionali, singolarmente e nel loro complesso, svolti dal convenuto e, comunque, -come in effetti in alcune occasioni è avvenuto- formulare richieste di approfondimento istruttorio
Nei regolamenti approvati dall’Università di Padova era ribadito il divieto di esercizio di attività libero professionali (art. 2, comma 1, lett. f Reg. 2015; art. 2, comma 6, Reg. 2017), di quest’ultima vengono individuati i caratteri fondamentali: a) essere a) attività prestata a favore di terzi; b) in forma individuale o associata; c) non rientrante nei compiti e doveri istituzionali; d) specialmente se presuppone l’iscrizione ad albi o registri; e) che rivesta il carattere della abitualità, sistematicità e continuità.
In primo luogo, infatti, l’oggetto degli incarichi di consulenza, benché legato alla indiscussa, riconosciuta, fama internazionale di scienziato del convenuto, è espressamente finalizzato alla realizzazione di specifici interessi produttivi delle aziende committenti, consistendo talora nella validazione di test effettuati dalle divisioni di ricerca interne, ma anche nell’esecuzione di test in proprio (in taluni casi con reperimento di campioni a cura del consulente), oppure nell’individuazione di kit e panel da sviluppare ed adattare a singoli macchinari prodotti dal committente. Si tratta, quindi, di consulenza finalizzata alla realizzazione degli interessi imprenditoriali dei committenti che se ne avvalgono nella propria attività industriale, siano tali interessi finalizzati all’assunzione di decisioni di investimento ovvero siano orientati, in concreto, alla definizione di specifiche tipologie di prodotti destinati al mercato
La giurisprudenza di questa Corte è, infatti, costante nel ritenere che, per potersi connotare come scientifica, la consulenza “non potrebbe mai essere incentrata sulla risoluzione di problematiche concrete, né essere volta a soddisfare unicamente interessi e necessità di soggetti terzi committenti” (Sez. Calabria, sent. n. 396/2020, confermata sul punto in appello da Sez. II, 30 sent. n. 221/2022). Se si desse un’interpretazione più estensiva della normativa, un docente “a tempo pieno” sarebbe libero di fare qualsiasi attività genericamente definita “di consulenza”, retribuita da soggetti pubblici o privati; il che sarebbe in aperto contrasto con lo spirito dello stesso comma 10 e, in particolare, con il richiamato comma 9” (Sez. I App. n. 49/2023; in termini, ex multis, recentemente, oltre a quelle sopra citate, Sez.II App. n.386/2022, Sez. I App. 387/2022).
In secondo luogo, il quadro complessivo – emergente dalla documentazione in atti – di un elevato numero di incarichi, molti dei quali intercorsi con i medesimi committenti e oggetto di reiterazione pluriennale, appare difficilmente conciliabile con il carattere di occasionalità che necessariamente deve connotare l’attività consulenziale “scientifica”. Da questo punto di vista la titolarità di partita IVA, sebbene non costituisca univoco elemento scriminante e identificativo del carattere professionale dell’attività, ne è, tuttavia, tipicamente un indice.
Alla luce di tali argomentazioni, la circostanza, ripetutamente sottolineata dal convenuto, dell’avvenuto rilascio dell’autorizzazione da parte dell’Università in relazione ai singoli incarichi si profila come irrilevante, sia in considerazione del fatto che, in quanto relativa ad attività libero professionale, vietata in maniera assoluta, l’autorizzazione è tamquam non esset (l’art. 53, comma 6 del D.Lgs. 165/2001 sanziona espressamente con la nullità gli atti adottati in violazione delle disposizioni in materia di incompatibilità degli incarichi), sia perché, in ogni caso, la stessa risulta illegittima in quanto rilasciata in violazione della disposizione regolamentare che sanziona la creazione di un distinto -rispetto a quello derivante dagli obblighi di servizio- centro di interesse, ponendo il divieto di assumere gli incarichi che ne siano espressione.
Il Collegio quindi condanna il Prof. X al risarcimento in favore dell’Università degli studi di Padova della somma di euro 440.000,00