Corte dei Conti, sezione giurisdizionale per la Toscana, sentenza n. 47 del 17 maggio 2024
Ai sensi dell’art. 87 del D. Lgs. n. 219 del 2006, rubricato “classi dei medicinali ai fini della fornitura”, alcuni sono qualificati come “soggetti a prescrizione medica limitativa” (lett. d); tra questi, rientrano quelli “vendibili al pubblico su prescrizione di centri ospedalieri o di specialisti”.
E’ evidente che il sistema sanitario prevede una serie di limitazioni per i farmaci più costosi, che possono essere prescritti soltanto a determinate condizioni e con specifiche modalità. La normativa, già di per sé, considera come “indebitamente prescritto” il farmaco per il quale non vengano rispettate le rigide regole procedurali stabilite di volta in volta, senza nemmeno prendere in considerazione la circostanza che esso possa essere o meno necessario per il paziente.
All’indebita prescrizione del farmaco consegue expressis verbis l’obbligo di rimborsarne il costo al SSN, proprio perché il danno erariale è insito nella stessa violazione delle disposizioni limitative del procedimento prescrittivo.
Contrariamente a quanto argomentato dai difensori, non si tratta di limiti e condizioni con una valenza esclusivamente formale e procedurale, ma di prescrizioni di natura sostanziale, che tendono a salvaguardare la sostenibilità della spesa sanitaria attribuendo la competenza a prescrivere i farmaci più costosi a carico dell’Erario pubblico soltanto ai medici del SSN, nell’ambito dell’ordinaria attività istituzionale.
Come chiarito dalla giurisprudenza, “sul piano normativo, è indubbio che l’utilizzo del ricettario pubblico” (le cc.dd. ricette rosse) “sia rigidamente limitato non solo a determinati soggetti, ma anche in relazione all’attività da costoro svolta”, ai sensi del comma 1 dell’art. 2 del D. L. n. 443/1987, essendo espressamente vietato anche “ai medici del servizio pubblico che esercitino l’attività libero professionale” (Sez. Giur. Sardegna. Sent. n. 74/2017), nell’intento di contenere la spesa pubblica.
Il problema non investe, dunque, la congruità delle prescrizioni sul piano terapeutico, ma l’impossibilità per il medico, che operi al di fuori dalla propria attività istituzionale, di prescrivere questa particolare tipologia di farmaci sul ricettario pubblico, addebitandone gli oneri al SSN.
Nel caso in esame, come emerso dalla documentazione acquisita in via istruttoria, il convenuto ha effettuato prescrizioni sul ricettario a carico del SSN per numerosissimi pazienti, con un danno erariale originariamente quantificato in € 65.543,34 e poi rideterminato dal PM, in virtù degli accertamenti effettuati in esecuzione dell’ordinanza istruttoria n. 20/2023, nella minor somma di € 61.492,19 (da cui detrarre comunque l’importo di € 5.000,00, già versato dal convenuto).
Vi è, dunque, la prova documentale del fatto che il convenuto ha effettuato queste prescrizioni non nella sua veste pubblica, ma in occasione dell’esercizio della propria attività libero – professionale, presso gli studi medici privati di Firenze, Prato e San Casciano Vale di Pesa.
L’avvenuta prescrizione del farmaco al di fuori dal perimetro previsto dalla legge, esplicitamente qualificata come indebita, comporta expressis verbis l’obbligo di rimborsarne i costi al SSN (art. 1, comma 4, D.L. n. 323/1996).
In quest’ottica, nemmeno dovrebbe essere consentito al convenuto di provare che la prestazione, pur irregolarmente prescritta, non abbia determinato in concreto alcun danno, che seguirebbe alle irregolarità procedurali e sarebbe in re ipsa. Sotto questo profilo, la tesi non è condivisibile, in quanto si ritiene che il medico debba essere ammesso a fornire la prova contraria, id est a dimostrare che i farmaci erano davvero necessari e che qualunque altro medico, operando nella sua veste pubblica, li avrebbe verosimilmente prescritti. L’onere della prova, però, è chiaramente a carico del convenuto.
Contrariamente a quanto argomentato dai difensori, non si tratta di un meccanismo di inversione dell’onere della prova, ma dell’applicazione della regola generale di cui all’art. 2697 cod. civ.; infatti, poiché il danno (non è che si presume, ma) deriva già di per sé dalla violazione delle regole procedurali, come statuito expressis verbis dalla legge, l’onere di provare che in un caso specifico il pregiudizio non si sia invece verificato non può che essere posto a carico di chi formula l’eccezione.