Il datore di lavoro non può trattare dati sull’orientamento sessuale del lavoratore per un procedimento disciplinare, nemmeno se sono disponibili on line

Garante per la protezione dei dati personali, Provvedimento del 24 aprile 2024

Il Ministero ha avviato nei confronti del reclamante un procedimento disciplinare sul presupposto che lo stesso abbia assunto “una condotta disciplinarmente rilevante […] consistita nell’aver diffuso la propria immagine in rete – e più specificatamente su un sito di incontri […] offrendo prestazioni sessuali dietro ricompensa”. Tale procedimento disciplinare sarebbe stato avviato a seguito di un’indagine effettuata nei confronti del reclamante da parte della XX accedendo al sito di incontri sopra richiamato e acquisendo immagini di annunci online relativi alle prestazioni offerte e contenenti, oltre alle fotografie dell’interessato, identificato anche attraverso uno pseudonimo, anche informazioni relative all’età e ai recapiti telefonici dello stesso.

Dalla documentazione in atti emerge, inoltre, che già nella fase di contestazione dell’addebito al reclamante (cfr. la predetta nota del Dipartimento del XX, in atti) era stato rilevato che il comportamento dello stesso non fosse “stato posto in essere durante l’orario di servizio”. Successivamente il Ministero, in data XX (a seguito dell’avvio dell’istruttoria del Garante) ha archiviato il procedimento disciplinare in questione sul presupposto che “la condotta infrattiva contestata non afferisce ad attività di servizio ed è stata posta in essere fuori dall’orario di servizio” confermando espressamente che essa “non ha arrecato danni al prestigio dell’amministrazione in quanto non sono emersi elementi tali da consentire il collegamento tra la stessa e l’incolpato”.

Nella cornice del Regolamento e del Codice, il datore di lavoro può trattare i dati personali dei lavoratori (art. 4, n. 1, del Regolamento), anche relativi a “categorie particolari”, se il trattamento è necessario “per adempiere un obbligo legale al quale è soggetto il titolare del trattamento” (artt. 6, par. 1, lett. c), e 2 e 3, e art. 9, parr. 2, lett. b) e 4; 88 del Regolamento) oppure “per l’esecuzione di un compito di interesse pubblico o connesso all’esercizio di pubblici poteri di cui è investito il titolare del trattamento” (art. 6, parr. 1, lett. e), 2 e 3, e art. 9, par. 2, lett. g), del Regolamento; artt. 2-ter e 2-sexies del Codice).

Con riferimento ai dati relativi a categorie particolari, tra i quali sono espressamente ricompresi i dati relativi “alla vita sessuale o all’orientamento sessuale […]” (art. 9, par. 1 del Regolamento), si fa presente che il relativo trattamento è, in generale, vietato a meno che non ricorra una delle specifiche condizioni indicate dal par. 2 dell’art. 9 del Regolamento.

In ambito lavorativo ciò implica che il trattamento di tali categorie di dati possa essere legittimamente posto in essere solo quando sia “necessario per assolvere gli obblighi ed esercitare i diritti specifici del titolare del trattamento o dell’interessato in materia di diritto del lavoro e della sicurezza sociale e protezione sociale, nella misura in cui sia autorizzato dal diritto dell’Unione o degli Stati membri o da un contratto collettivo ai sensi del diritto degli Stati membri, in presenza di garanzie appropriate per i diritti fondamentali e gli interessi dell’interessato” (art. 9, par. 2, lett. b), del Regolamento; v. pure, art. 88, e cons. 51-53 del Regolamento; cfr., “Provvedimento recante le prescrizioni relative al trattamento di categorie particolari di dati, ai sensi dell’art. 21, comma 1, del d.lgs 10 agosto 2018, n. 101”, doc web n. 9124510) nonché, in taluni casi, al ricorrere di “motivi di interesse pubblico rilevante” (art. 9, par. 2, lett. g) del Regolamento e art. 2-sexies, spec. lett. dd) del Codice). 

In ogni caso, il datore di lavoro deve rispettare le norme nazionali più specifiche con riguardo al trattamento dei dati nell’ambito dei rapporti di lavoro (art. 88 e cons. 155 del Regolamento), e, in particolare, le disposizioni che vietano al datore di lavoro di acquisire, anche a mezzo di terzi, e trattare informazioni sulle opinioni politiche, religiose o sindacali del lavoratore, nonché su fatti non rilevanti ai fini della valutazione dell’attitudine professionale del lavoratore (cfr. art. 113 del Codice, che richiama l’art. 8 della l. 20 maggio 1970, n. 300 e l’art. 10 del d.lgs. 10 settembre 2003, n. 276). Per effetto di tale rinvio, e tenuto conto dell’art. 88, par. 2, del Regolamento, l’osservanza dell’art. 8 della l. 20 maggio 1970, n. 300 e dell’art. 10 del d.lgs. 10 settembre 2003, n.276 (nei casi in cui ne ricorrono i presupposti) costituisce una condizione di liceità del trattamento.

Nel corso dell’istruttoria il Ministero ha invocato, a propria difesa, l’“obbligatorietà dell’azione disciplinare prevista per l’impiego presso la P.A. sancito dall’art. 55 del D.Lgs. 165/2001” e un’asserita responsabilità per i titolari dell’azione disciplinare in caso di eventuale inerzia. Tali argomenti non possono tuttavia ritenersi pertinenti riguardo al caso di specie considerato che la tipologia delle infrazioni disciplinari e delle relative sanzioni applicabili al contesto pubblico è definita dalla legge e dai contratti collettivi applicabili (cfr. art. 55 e ss., spec. 55-quater e 55-sexies d.lgs. n. 165/2001) e che un’eventuale responsabilità omissiva in capo al personale titolare dell’azione disciplinare è prevista dalla legge, in particolare, in presenza di “valutazioni manifestamente irragionevoli di insussistenza dell’illecito in relazione a condotte aventi oggettiva e palese rilevanza disciplinare” (cfr. 55-sexies, commi 3 e 4, cit.

L’aver quindi utilizzato i dati personali afferenti anche alla sfera sessuale del reclamante nell’ambito dell’esercizio delle funzioni datoriali – nell’asserita convinzione che il trattamento fosse necessario in ottemperanza all’obbligo legale e ancorché ciò sia avvenuto in presenza di accorgimenti adottati per limitare la conoscenza dei fatti ad un novero ristretto di autorizzati – non può essere considerato sufficiente a colmare il difetto di base giuridica e a superare il contrasto con le richiamate disposizioni che vietano al datore di lavoro di trattare informazioni non attinenti all’attività lavorativa (per analoghe considerazioni in relazione all’utilizzo di dati raccolti in assenza di base giuridica per l’esercizio del potere disciplinare in un diverso contesto, cfr. provv.10 novembre 2022 n. 367, doc. web n. 9835095).

Per tutto quanto sopra esposto, stante l’inutilizzabilità dei “dati personali trattati in violazione della disciplina rilevante in materia di trattamento dei dati” (cfr. art. 2-decies del Codice), si ritiene pertanto che il Ministero, una volta venuto a conoscenza da parte di colleghi dell’interessato delle informazioni attinenti ad aspetti relativi alla vita sessuale e all’orientamento sessuale del dipendente, avrebbe dovuto astenersi dall’utilizzarle.

Per le ragioni sopra evidenziate si deve concludere, stante la previsione dell’art. 113 del Codice, che la acquisizione e il successivo trattamento di dati personali riconducibili anche alla “vita sessuale” e all’”orientamento sessuale” del reclamante, ancorché reperiti online in quanto previamente ivi resi disponibili dallo stesso interessato, è avvenuta in assenza di un’idonea base giuridica e in contrasto con le disposizioni nazionali che vietano al datore di lavoro di acquisire e trattare informazioni relative alla sfera privata del dipendente, in violazione degli artt. 5, par. 1 lett. a), 6, 9 e 88 del Regolamento, nonché 2-ter, 2-sexies e 113 del Codice (in relazione all’ art. 8 della l. 20 maggio 1970, n. 300 e art. 10 del d.lgs. 10 settembre 2003, n. 276).

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