Consiglio di Stato, sentenza n. 7712 del 23 settembre 2024
L’odierno appellante, professore ordinario dell’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”, ha premesso in fatto di aver prestato servizio presso l’INAIL prima dell’inquadramento come ricercatore universitario nell’Ateneo oggi appellato e, una volta nominato ricercatore, di aver ottenuto nel 2004 l’attribuzione di un assegno personale pensionabile in virtù del trattamento retributivo in precedenza goduto, assegno, gradualmente riassorbibile.
In data 2 novembre 2022, l’appellante ha ricevuto una comunicazione con cui l’Università lo informava che la somma lorda da recuperare a causa dell’indebito retributivo, ammontava complessivamente a € 152.037,66.
Il Supremo Consesso amministrativo ha ricordato che in analoga controversia questa Sezione (Cons. St., sez. VII, 16 maggio 2024, n. 4386) ha già chiarito con argomentazioni, che la Corte costituzionale con la sentenza n. 8 del 27 gennaio 2023, nel rigettare le questioni di legittimità costituzionale sollevate in relazione all’art. 2033 c.c, ha confermato in plurimi passaggi e obiter dicta l’obbligo, per le amministrazioni pubbliche, di avviare il recupero delle somme eventualmente indebitamente corrisposte senza distinguere fra le diverse tipologie di versamento, tutte unificate dalla medesima ratio di buon andamento economico-finanziario e di parità di trattamento, e tale circostanza preclude l’accoglimento della censura secondo cui l’azione di recupero qui contestata non sarebbe doverosa.
Al di fuori del raggio di disposizioni speciali che, nel campo delle prestazioni retributive, previdenziali e assistenziali, prevedono, nell’ordinamento italiano, l’irripetibilità dell’attribuzione erogata, la Corte costituzionale ha ricordato che opera, viceversa, la disciplina generale dell’indebito oggettivo, di cui all’art. 2033 c.c., secondo la quale «chi ha eseguito un pagamento non dovuto ha diritto di ripetere ciò che ha pagato» e «ha inoltre diritto ai frutti e agli interessi dal giorno del pagamento, se chi lo ha ricevuto era in mala fede, oppure, se questi era in buona fede, dal giorno della domanda».
Per le pubbliche amministrazioni, va qui soggiunto, la restituzione delle somme indebite erogate al dipendente costituisce operazione doverosa, oggetto, dunque, di attività vincolata: la giurisprudenza amministrativa ha da tempo affermato la natura doverosa della ripetizione (ad esempio, Cons. St., sez. III, 9 giugno 2014, n. 2903), atteso che la percezione di emolumenti non dovuti impone all’amministrazione l’esercizio del diritto-dovere di ripetere le relative somme in applicazione dell’art. 2033 c.c. anche nei rapporti di lavoro non privatizzati (Cons. St., sez. IV, 17 agosto 2023, n. 7799).
Come questa Sezione ha già chiarito (v., in particolare, Cons. St., sez. VII, 27 aprile 2023, n. 4240), secondo orientamento invero decisamente maggioritario della Cassazione, della Corte dei Conti e dello stesso Consiglio di Stato, «l’azione di recupero è dovuta a prescindere dalla buona fede del dipendente “accipiens” (ex multis Corte di Cassazione sez. lavoro 20 febbraio 2017, n. 4323; Consiglio di Stato sez. III, 23 dicembre 2019, n. 8737; Corte dei Conti sez. reg. controllo per il Lazio Delib. 15 giugno 2015, n. 125); il solo temperamento al principio dell’ordinaria ripetibilità dell’indebito è rappresentato dalla regola per cui le modalità di recupero devono essere non eccessivamente onerose (in relazione alle condizioni di vita del debitore) e tali da consentire la duratura percezione di una retribuzione che assicuri un’esistenza libera e dignitosa».In caso di indebita erogazione di denaro pubblico, infatti, l’affidamento del percettore delle somme e la stessa buona fede non sono d’ostacolo all’esercizio, da parte dell’amministrazione, del potere-dovere di recupero, in linea con il canone costituzionale di buon andamento, né l’amministrazione è tenuta a fornire un’ulteriore motivazione sull’elemento soggettivo riconducibile all’interessato o all’interesse pubblico al recupero che è rinvenibile in re ipsa (Cons. St., sez. III, 21 gennaio 2015, n. 201).