Corte Costituzionale, sentenza n. 153 del 29 luglio 2024
Sin dall’istituzione del SSN, con la legge 23 dicembre 1978, n. 833 (Istituzione del servizio sanitario nazionale), si era, infatti, previsto, per il dirigente medico che avesse optato per il regime del tempo pieno, il diritto all’esercizio dell’attività libero-professionale, tuttavia solo nell’ambito dei servizi e delle strutture dell’unità sanitaria locale (art. 47, terzo comma, numero 4, come attuato dall’art. 35, comma 2, lettera d) del decreto del Presidente della Repubblica 20 dicembre 1979, n.761).
Con l’introduzione dell’art. 4, comma 7, della legge n. 412 del 1991, è stato affermato il principio di unicità del rapporto di lavoro dei dirigenti medici con il SSN, ma se ne è riconosciuta la compatibilità con l’attività libero-professionale «purché espletata fuori dall’orario di lavoro all’interno delle strutture sanitarie o all’esterno delle stesse, con esclusione di strutture private convenzionate con il Servizio sanitario nazionale».
I successivi interventi del legislatore, dalla riforma di cui al d.lgs. n. 502 del 1992, alle previsioni introdotte dall’art. 72, comma 11, della legge 23 dicembre 1998, n. 448, hanno confermato il principio di esclusività del rapporto di lavoro con il SSN e l’incompatibilità fra attività libero-professionale extramuraria e intramuraria, insieme al riconoscimento e all’incentivo di quest’ultima, sia nell’interesse del medico, abilitato a svolgere, a certe condizioni, la libera professione, sia per consentire al paziente la scelta del medico di fiducia. È, infatti, proprio al fine di rendere possibile l’esercizio dell’attività libero-professionale dei medici, con un rapporto di lavoro esclusivo con il SSN, che è stata introdotta, in via transitoria, in considerazione della carenza degli spazi disponibili, la possibilità di un’ALPI “allargata”, e si è consentito al direttore generale, «fino alla realizzazione di proprie idonee strutture e spazi distinti per l’esercizio dell’attività libero professionale intramuraria in regime di ricovero ed ambulatoriale», di «assumere le specifiche iniziative per reperire fuori dall’azienda spazi sostitutivi», includendovi anche gli studi professionali privati, ma con l’espressa esclusione delle strutture sanitarie private accreditate, che l’art. 1, comma 5, della legge 23 dicembre 1996, n. 662 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica) ha equiparato alle strutture sanitarie private convenzionate.
Con l’ulteriore riforma di cui al decreto legislativo 19 giugno 1999, n. 229, il legislatore ha, poi, introdotto nuove disposizioni nel d.lgs. n. 502 del 1992 (in specie, all’art. 15-quinquies) che hanno definito le uniche modalità di esercizio dell’attività professionale compatibili con il rapporto di lavoro esclusivo con il SSN. Queste ultime sono state individuate, non solo al fine della «salvaguardia delle esigenze del servizio e della prevalenza dei volumi orari di attività necessari per i compiti istituzionali», nonché del rispetto dei «piani di attività previsti dalla programmazione regionale e aziendale» (comma 3) ai fini istituzionali e nell’assicurazione dei relativi volumi prestazionali, ma anche ribadendo la necessità dello svolgimento dell’ALPI solo all’interno delle strutture aziendali o, previa convenzione, in strutture di altra azienda del SSN o di altre strutture sanitarie purché non accreditate.
Successivamente, il legislatore statale è intervenuto a prorogare l’autorizzazione all’utilizzazione degli studi professionali privati, «in caso di carenza di strutture e spazi idonei alle necessità connesse allo svolgimento delle attività libero-professionali in regime ambulatoriale, limitatamente alle medesime attività» (art. 15-quinquies, comma 10, del d.lgs. n. 502 del 1992, come sostituito dall’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 254 del 2000), sempre, tuttavia, nel rispetto delle richiamate regole, comprensive dell’esclusione dello svolgimento dell’ALPI nelle strutture private accreditate. Il termine è stato ulteriormente rinviato, dapprima fino al 31 luglio 2005, per effetto dell’art. 1, comma 1, del decreto-legge 23 aprile 2003, n. 89, poi, fino al 31 luglio 2006, con l’art. 1-quinquies del decreto-legge 27 maggio 2005, n. 87, e comunque entro il 31 luglio 2007» (art. 22-bis, comma 2, del d.l. n. 223 del 2006, come convertito).
Da tempo si è avuto modo di rilevare che la scelta del legislatore statale di subordinare l’attività libero-professionale intramuraria a una serie di condizioni di tempo e di luogo ‒ con assoluta esclusione dell’esercizio della medesima all’interno di strutture private convenzionate (oggi: accreditate) con il Servizio sanitario nazionale ‒ costituisce, da un lato, espressione dell’ampia accezione in cui è stato declinato il suddetto principio di esclusività (sentenza n. 457 del 1993) e, dall’altro, della particolare natura di tali strutture: entrambi elementi che rendono non irragionevole la scelta di politica sanitaria effettuata dal legislatore statale.
Ne consegue che il divieto di svolgimento dell’ALPI presso strutture sanitarie private accreditate, che si trae dall’art. 1, comma 4, della legge n. 120 del 2007, letto alla luce del complessivo e risalente quadro di riferimento normativo statale, costituisce un «principio fondamentale, volto a garantire una tendenziale uniformità tra le diverse legislazioni ed i sistemi sanitari delle Regioni e delle Province autonome in ordine a un profilo qualificante del rapporto tra sanità ed utenti» (sentenza n. 371 del 2008).
Appare, pertanto, evidente che il legislatore regionale, con la citata disposizione, nel consentire, sia pure «[i]n via transitoria» e comunque «fino all’anno 2025», ai dirigenti sanitari in rapporto esclusivo con il SSR, che abbiano optato per l’esercizio dell’attività libero-professionale intramuraria, di operare nelle strutture sanitarie private accreditate, anche parzialmente, con il Servizio sanitario regionale, ha inteso disattendere il divieto di cui all’art. 1, comma 4, della legge n. 120 del 2007, nonché il connesso principio di esclusività del rapporto di lavoro del dirigente sanitario con il servizio sanitario pubblico, violando l’art. 117, terzo comma, Cost.