Corte di Cassazione, sentenza n. 20880 del 21 agosto 2018
Alle attività nell’ambito degli istituti penitenziari non sono applicabili altresì le incompatibilità e le limitazioni previste dai contratti e dalle convenzioni con il Servizio Sanitario nazionale». 3.1. Questa Corte ha da tempo affermato che le prestazioni rese dai medici incaricati presso gli istituti di prevenzione e pena, non integrano un rapporto di pubblico impiego, bensì una prestazione d’opera professionale caratterizzata dagli elementi tipici della parasubordinazione (Cass. S.U. 12618/1998 e Cass. S.U. n. 7901/2003), che trova la propria fonte normativa nel complesso delle disposizioni contenute nella legge n. 740/1970, le quali si pongono come norme speciali ( Cass. n. 3782/2012 e Cass. n. 10189/2017). Il comma 2 dell’art. 2, quindi, trova la sua ratio nella peculiare natura del rapporto al quale la disposizione si riferisce, perché è volto a rimarcare la non assimilabilità dello stesso all’impiego pubblico, e, quindi, ad escludere l’applicazione, non delle sole norme inerenti il regime delle incompatibilità, ma in genere dell’intera disciplina dettata per gli impiegati civili dello Stato. In considerazione della particolare penosità del servizio prestato dai sanitari addetti agli istituti penitenziari ( Cass. n. 14947/2016; Cass. n. 17092/2010; Cass. n. 9046/2006) il RG 1791/2017 legislatore, poi, ha ritenuto di non dovere estendere ai medici che svolgono «a qualsiasi titolo» detta attività «le incompatibilità e le limitazioni previste dai contratti e dalle convenzioni con il Servizio sanitario nazionale», rimarcando la specialità del rapporto anche rispetto a quelli, egualmente parasubordinati, instaurati con i medici convenzionati. La disposizione in commento è, quindi, volta a disciplinare il rapporto fra il sanitario e l’amministrazione penitenziaria ed esclude l’obbligo di esclusività, anche al fine di estendere la platea dei possibili aspiranti all’incarico, in considerazione della peculiare natura dello stesso. 3.2. Da ciò, peraltro, non si possono trarre le conseguenze pretese dal ricorrente, perché la norma non incide sulla disciplina di rapporti diversi da quello al quale si riferisce e, pertanto, non conferisce al medico incaricato il diritto a cumulare l’incarico con qualsiasi altra attività, prescindendo dai requisiti che per quest’ultima il legislatore richiede. Il distinto rapporto che viene in rilievo resta soggetto alle regole sue proprie, sicché, ove lo stesso sia caratterizzato dall’esclusività, l’obbligo resta immutato, e non rileva che l’incarico ulteriore che si pretende di svolgere sia riconducibile alle previsioni della legge n. 740/1970. Da ciò discende che il medico legato ad una pubblica amministrazione da rapporto di impiego a tempo indeterminato, in relazione a detto rapporto ed agli obblighi che dallo stesso scaturiscono, è tenuto al rispetto dell’art. 53 del d.lgs. n. 165/2001, che richiama il regime delle incompatibilità ed il divieto di cumulo di cui al d.P.R. n. 3/1957, sicche non può sottrarsi alle conseguenze derivanti dalla violazione del divieto facendo leva sulla disciplina dettata, ad altri fini, dal menzionato art. 2 della legge n. 740/1970, che la Corte territoriale, correttamente, ha ritenuto non applicabile alla fattispecie.