Consiglio di Stato, sentenza n. 5039 del 23 agosto 2018
La Sezione (da ultimo, 18 gennaio 2018, n. 321) ha riconosciuto la legittimità della c.d. clausola di salvaguardia (ovvero l’accettazione incondizionata, da parte degli operatori privati, dei tetti di spesa e la rinuncia ad eventuali impugnazioni dei relativi provvedimenti di determinazione) presente in numerosi schemi-tipo di contratto ex art. 8 quinquies, d.lgs. n. 502 del 1992 predisposti da diverse Regioni soggette a Piano di rientro.
Come chiarito nella sentenza della Sezione 1 febbraio 2017, n. 430, gli operatori privati – in quanto impegnati, insieme alle strutture pubbliche, a garantire l’essenziale interesse pubblico alla corretta ed appropriata fornitura del primario servizio della salute – non possono considerarsi estranei ai vincoli oggettivi e agli stati di necessità conseguenti al Piano di rientro, al cui rispetto la Regione è obbligata.
La stessa Sezione, sebbene in sede cautelare (ord., 26 febbraio 2015, n. 906), aveva già chiarito che la sottoscrizione della clausola di salvaguardia nelle Regione soggette ai Piani di rientro dai disavanzi del settore sanità è imposta dal Ministero dell’economia e delle finanze e dal Ministero della salute per esigenze di programmazione finanziaria, attraverso le prescrizioni elaborate all’esito della riunione del Tavolo tecnico per la verifica degli adempimenti regionali. Tale clausola di conseguenza equivale ad un impegno della parte privata contraente al rispetto ed accettazione dei vincoli di spesa essenziali in una Regione sottoposta al Piano di rientro. (sez. III, ord., 27 gennaio 2017, n. 336).
D’altro canto, in caso di mancata sottoscrizione, l’Autorità politico-amministrativa non avrebbe alcun interesse a contrarre a meno di non rendere incerti i tetti di spesa preventivati, né potrebbe essere obbligata in altro modo alla stipula, con l’effetto che la richiesta sospensione finirebbe per non giovare alla parte ricorrente in primo grado.
Ha aggiunto la Sezione che chi intende operare nell’ambito della sanità pubblica deve accettare i limiti in cui la stessa è costretta, dovendo comunque e in primo luogo assicurare, pur in presenza di restrizioni finanziarie, beni costituzionali di superiore valore quale i livelli essenziali relativi al diritto alla salute. In alternativa, agli operatori resta la scelta di agire come privati nel privato.
Corollario obbligato di tali premesse è che agli operatori privati si pone unicamente l’alternativa se accettare le condizioni derivanti da esigenze programmatorie e finanziarie pubbliche (e dunque il budget assegnato alla propria struttura) onde permanere nel campo della sanità pubblica; ovvero, se collocarsi esclusivamente nel mercato della sanità privata.
Del resto la parte pubblica sottoscrittrice del contratto, in difetto di una valida e incondizionata accettazione della clausola di salvaguardia de qua da parte dell’altro contraente, non avrebbe interesse alla conclusione dell’accordo, non potendo essa programmare efficacemente la spesa sanitaria, stante la permanenza di contestazioni giudiziali sui tetti di spesa.
Da tutto quanto sopra argomentato consegue la legittimità dell’impugnata clausola di salvaguardia,