Corte di Cassazione, sentenza n. 24118 del 3 ottobre 2018
La giurisprudenza della Suprema Corte in tema di rifiuto del lavoratore alla prestazione lavorativa ha affermato che l’illegittimo comportamento del datore di lavoro, consistente nell’assegnare il dipendente a mansioni inferiori a quelle corrispondenti alla sua qualifica, può giustificare il rifiuto della prestazione lavorativa, purché tale reazione sia connotata da caratteri di positività, risultando proporzionata e conforme a buona fede, dovendo in tal caso il giudice adito procedere ad una valutazione complessiva dei comportamenti di entrambe le parti (Cass. 08/08/2003 n. 12001); in questa linea argomentativa ed in senso accentuativo dell’obbligo scaturente dall’art. 2094 cod. civ. è stato chiarito che l’eventuale adibizione a mansioni non rispondenti alla qualifica rivestita può consentire al lavoratore di richiedere giudizialmente la riconduzione della prestazione nell’ambito della qualifica di appartenenza, ma non autorizza lo stesso a rifiutarne aprioristicamente l’adempimento in quanto egli è tenuto ad osservare le disposizioni per l’esecuzione del lavoro impartito dall’imprenditore, ex artt. 2086 e 2104 cod.civ., da applicarsi alla stregua del principio sancito dall’art. 41 Cost. e può legittimamente invocare l’art. 1460 del cod.civ., rendendosi inadempiente, solo in caso di totale inadempimento dell’altra parte (05/12/2007 n. 25313;) o anche, come puntualizzato da Cass. 20/07/2012 n. 12696 e da Cass 16/01/2018 n. 836, nel caso in cui l’inadempimento del datore di lavoro sia tanto grave da incidere in maniera irrimediabile sulle esigenze vitali del lavoratore medesimo o da esporlo a responsabilità penale connessa allo svolgimento delle nuove mansioni (v. in relazione a tale specifico profilo, Cass. 19.7.2013, n. 17713).