Corte di Cassazione, ordinanza n. 23891 del 2 ottobre 2018
Secondo l’orientamento della Suprema Corte, il comportamento del lavoratore subordinato che si avvalga del permesso di cui all’art. 33, L. n. 104 del 1992 non per l’assistenza al familiare, bensì per attendere ad altra attività, integra l’ipotesi di abuso di diritto, giacché tale condotta si palesa nei confronti del datore di lavoro come lesiva della buona fede, privandolo ingiustamente della prestazione lavorativa in violazione dell’affidamento riposto nel dipendente ed integra, nei confronti dell’Ente di previdenza erogatore del trattamento economico, un’indebita percezione dell’indennità ed uno sviamento dell’intervento assistenziale (Cass. n. 9217 del 2016; Cass. n. 4984 del 2014)
E’ stato parimenti sottolineato il disvalore sociale della condotta del lavoratore che usufruisce, anche solo in parte, di permessi per l’assistenza a portatori di handicap al fine di soddisfare proprie esigenze personali “scaricando il costo di tali esigenze sulla intera collettività, stante che i permessi sono retribuiti in via anticipata dal datore di lavoro, il quale poi viene sollevato dall’ente previdenziale del relativo onere anche ai fini contributivi e costringe il datore di lavoro ad organizzare ad ogni permesso diversamente il lavoro in azienda ed i propri compagni di lavoro, che lo devono sostituire, ad una maggiore penosità della prestazione lavorativa”, (Cass. n. 8784 del 2015);
Nel caso di specie, però, la Corte territoriale ha escluso la finalizzazione a scopi personali delle ore di permesso di cui il sig. X ha usufruito avendo ricollegato, in base alle prove raccolte, le attività poste in essere dal predetto, come il fare la spesa, l’usare lo sportello Postamat, incontrare il geometra e l’architetto, a specifici interessi ed utilità dei congiunti in tal modo assistiti