Tar Lecce, ordinanza n. 1544 del 24 ottobre 2018
Le conseguenze decadenziali (definitive) dal beneficio (peraltro, latu sensu sanzionatorie), legate alla non veridicità obiettiva della dichiarazione, e, a fortiori, l’impedimento a conseguire il beneficio medesimo, ai sensi del citato art. 75 del D.P.R. n. 445/2000, appaiono al Tribunale irragionevoli e incostituzionali, contrastando con il principio di proporzione, che è alla base della razionalità che, a sua volta, informa il principio di uguaglianza sostanziale, ex art. 3 della Costituzione.
E tanto ove si considerino (innanzitutto e in via dirimente) il meccanico automatismo legale (del tutto “slegato” dalla fattispecie concreta) e l’assoluta rigidità applicativa della norma in questione, che (da un lato) impone tout court (senza alcun distinguo, né gradazione) la decadenza dal beneficio (o l’impedimento al conseguimento dello stesso), a prescindere dall’effettiva gravità del fatto contestato (sia per le fattispecie in cui la dichiarazione non veritiera riveste un’incidenza del tutto marginale rispetto all’interesse pubblico perseguito dalla P.A., sia per quelle nelle quali tale dichiarazione risulta in netto contrasto con tale interesse, riservando, quindi, il medesimo trattamento a situazioni di oggettiva diversa gravità), e (dall’altro) non consente di escludere nemmeno le ipotesi di non veridicità delle autodichiarazioni su aspetti di minima rilevanza concreta, con ogni possibile (e finanche prevedibile) abnormità e sproporzione delle relative conseguenze, rispetto al reale disvalore del fatto commesso.
Sotto altro profilo, inoltre, l’assoluta rigidità applicativa dell’art. 75 del D.P.R. n. 445/2000 appare eccessiva, in quanto non consente (parimenti irragionevolmente e inadeguatamente) di valutare l’elemento soggettivo (dolo – la c.d. coscienza e volontà di immutare il vero – ovvero colpa, grave o meno – nell’ipotesi di fatto dovuto a mera leggerezza o negligenza dell’agente) della dichiarazione (oggettivamente) non veritiera, nella naturale (e contestuale) sede del procedimento amministrativo (o anche, laddove la P.A. lo ritenga, nell’ambito del pertinente giudizio penale).
Né può ritenersi che i suddetti dubbi di costituzionalità possano essere superati facendo leva sulla ratio sottesa alla disposizione di che trattasi, rinvenibile, secondo il diritto “vivente” (cfr., ex plurimis, Consiglio di Stato, Sezione Quinta, cit., n. 2447/2012), nel principio generale di semplificazione amministrativa (cui si accompagna l’affermazione dell’autoresponsabilità – “oggettiva” – del dichiarante).
E’ ben vero, infatti, che l’art. 75 del D.P.R. n. 445/2000 debba qualificarsi quale norma generale di semplificazione amministrativa.
Tuttavia, proprio in quanto tale, la suddetta norma, se, da un lato, è sicuramente volta a rendere più efficiente ed efficace l’azione dell’Amministrazione pubblica (buon andamento, ai sensi dell’art. 97 della Costituzione), dall’altro è (altrettanto inequivocabilmente) finalizzata a garantire i diritti dei singoli costituzionalmente tutelati e di volta in volta coinvolti nel procedimento amministrativo attivato (e nell’ambito del quale sono state rese le autodichiarazioni medesime): si pensi, ad esempio, al diritto allo studio (art. 34), al diritto alla salute (art. 32), al diritto al lavoro (artt. 4 e 35), al diritto all’assistenza sociale (art. 38), al diritto di iniziativa economica privata (art. 41, come nel caso di specie).
Sicchè, anche nella prospettiva del necessario bilanciamento degli interessi costituzionali coinvolti (nonché della massima espansione possibile delle relative tutele), il rigido automatismo applicativo (in uno ai correlati e definitivi effetti preclusivi e/o decadenziali) si rivela, in concreto, lesivo del doveroso equilibrio fra le diverse esigenze in gioco, e persino tale da pregiudicare definitivamente proprio quei diritti costituzionali del singolo alla cui migliore e più rapida realizzazione la norma di semplificazione de qua è, in definitiva, finalizzata.