TRGA, sentenza n. 259 del 21 novembre 2018
Il ricorso investe il capitolato tecnico, perché mira a dimostrare che la stazione appaltante, in presenza di dispositivi medici muniti della marcatura CE, non può richiedere con la lex specialis requisiti ulteriori sul presupposto che la marcatura CE non assicura un adeguato livello di protezione per la salute dei pazienti. Ciò posto, destano viva preoccupazione fatti di cronaca come quelli riferiti nel resoconto stenografico della seduta della Camera dei Deputati n. 227 del 21 novembre 2002, che hanno indotto il Ministero della salute a disporre il ritiro dal mercato di valvole cardiache. Tuttavia proprio l’iniziativa assunta in tale occasione dal Ministero della salute dimostra che, de iure condito, il rimedio apprestato dalla normativa di settore per il caso in cui un dispositivo recante la marcatura CE ai sensi dell’art. 5 del decreto legislativo n. 46/1997, ancorché installato e utilizzato correttamente secondo la sua destinazione e oggetto di manutenzione regolare, possa compromettere la salute e la sicurezza dei pazienti, degli utilizzatori o di terzi, non può essere quello individuato dalla stazione appaltante, ossia imporre ai soggetti che partecipano ad una gara, in aggiunta all’obbligo di comprovare la conformità del prodotto offerto alla normativa di settore, anche l’obbligo di dichiarare che il prodotto possiede ulteriori requisiti. Tale rimedio è infatti costituito dalla procedura di salvaguardia di cui all’art. 7 del decreto legislativo n. 46/1997 (che recepisce l’art. 8 della direttiva 93/42/CEE), in base al quale il Ministero della salute dispone il ritiro dal mercato del dispositivo pericoloso e ne vieta o limita l’immissione in commercio o la messa in servizio, informando contestualmente il Ministero dello sviluppo economico e la Commissione delle Comunità europee.
Del resto in tal senso si è espressa anche la Corte di Giustizia UE nella già menzionata sentenza n. 6/2007 (seppure con riferimento ad una fattispecie parzialmente diversa da quella in esame), affermando che «la necessità di conciliare la libera circolazione dei dispositivi di cui trattasi con la protezione della salute dei pazienti implica che, in caso di comparsa di un rischio connesso a dispositivi certificati conformi alla direttiva 93/42, lo Stato membro interessato attui la procedura di salvaguardia prevista all’art. 8 di tale direttiva, senza che organi non autorizzati possano decidere direttamente e unilateralmente le misure da adottare in tale situazione» (punto 52), sicché «quando taluni prodotti proposti, ancorché muniti di una marcatura CE, fanno sorgere timori nell’autorità aggiudicatrice per quanto riguarda la salute o la sicurezza dei pazienti, il principio di parità di trattamento degli offerenti e l’obbligo di trasparenza, che valgono indipendentemente dall’applicabilità o meno della direttiva 93/36, ostano, al fine di evitare qualsiasi arbitrio, a che tale autorità aggiudicatrice possa, essa stessa, escludere direttamente l’offerta di cui trattasi e la obbligano ad assoggettarsi ad una procedura, come la procedura di salvaguardia prevista all’art. 8 della direttiva 93/42, idonea a garantire una valutazione e un controllo obiettivi e indipendenti dei rischi allegati» (punto 53).