Corte di Cassazione, sentenza n. 28986 del 11 novembre 2019
Non possono essere condivise le teorie che pretendono di ridurre il risarcimento del danno alla salute anche in presenza di preesistenze che non interferiscono con i postumi dell’illecito (cioè le c.d. lesioni policrone coesistenti). Tali teorie sono epigone dell’arcaica opinione medico-legale secondo cui costituirebbe “inoppugnabile principio di diritto” quello secondo cui “se la cosa danneggiata era fin da prima difettosa, di questo difetto si de[ve] tener conto”.
Tale preteso principio non solo non è infatti “inoppugnabile”, ma non è nemmeno esistente, dal momento che il danno alla salute consiste in una perdita, e la perdita va ascritta per intero al responsabile se, in assenza dell’illecito, essa non si sarebbe affatto verificata. Pertanto non solo la liquidazione del risarcimento, ma anche, prima ancora, la determinazione del grado percentuale di invalidità permanente sofferto da persona già menomata, quando lo stato anteriore della vittima non abbia inciso in alcun modo sui postumi concretamente prodotti dal secondo infortunio, va determinato come se a patire le conseguenze fosse stata una persona sana, in virtù della inesistenza di causalità giuridica tra stato anteriore e postumi.
Resta solo da aggiungere che il concetto di “coesistenza” va valutato a posteriori ed in concreto, non a priori ed in astratto. Non si può, infatti, escludere aprioristicamente che successive menomazioni riguardanti lo stesso organo possano non aggravarsi le une a causa delle altre (si pensi a chi, avendo una ridotta capacità uditiva, patisca un trauma che provochi la sordità, che però sarebbe stata inevitabile anche se la lesione avesse attinto una persona sana; oppure all’ipotesi dell’amputazione d’un arto, già anchilosato in posizione sfavorevole, la quale renda possibile una vantaggiosa protesizzazione).
Allo stesso modo, non può proclamarsi a priori che menomazioni riguardanti organi diversi mai interferiscano tra loro (si pensi all’ipotesi della perdita del tatto in una persona non vedente). Quel che dunque rileva, al fine della stima percentuale dell’invalidità permanente, non sono né formule definitorie astratte (“concorrenza” o “coesistenza” delle menomazioni), né il mero riscontro della medesimezza o diversità degli organi o delle funzioni menomati. Poiché si tratta di accertare un nesso di causalità giuridica, quel che rileva è il giudizio controfattuale, e dunque lo stabilire col metodo c.d. della “prognosi postuma” quali sarebbero state le conseguenze dell’illecito, in assenza della patologia preesistente. Se tali conseguenze possano teoricamente ritenersi pari sia per la vittima reale, sia per una ipotetica vittima perfettamente sana prima dell’infortunio, dovrà concludersi che non vi è alcun nesso di causa tra preesistenze e postumi, i quali andranno perciò valutati e quantificati come se a patirli fosse stata una persona sana.
In tal caso, pertanto, sul piano medico-legale il grado di invalidità permanente sofferto dalla vittima andrà determinato senza aprioristiche riduzioni, ma appezzando l’effettiva incidenza dei postumi sulle capacità, idoneità ed abilità possedute dalla vittima prima dell’infortunio.