Corte di Cassazione Penale, sentenza n. 8433 dep 2 marzo 2020
Sono manifestamenti infondati i rilievi attinenti alla configurabilità del reato di tentativo di violenza privata, posto che, per costante orientamento della giurisprudenza di legittimità, come correttamente rilevato dalla corte territoriale, ai fini della configurabilità del tentativo di violenza privata, non è necessario che la minaccia abbia effettivamente intimorito il soggetto passivo determinando una costrizione, ancorché improduttiva del risultato perseguito, ma è sufficiente che essa sia idonea ad incutere timore e sia diretta a costringere il destinatario a tenere, contro la propria volontà, la condotta pretesa dall’agente (cfr. tra le altre, Cass., sez. V, n. 34124, del 6.5.2019, rv. 276903).
Corretta appare anche la qualificazione delle condotte come tentativo di violenza privata, piuttosto che come minaccia, in quanto, per consolidato insegnamento di questa Corte, di cui il giudice di appello ha dimostrato di avere piena consapevolezza, la differenza tra il delitto di minaccia e quello di violenza privata va individuata nel fatto che mentre nella minaccia l’atto intimidatorio è fine a se stesso e per la sussistenza del reato è sufficiente che l’agente ponga in essere la condotta minatoria in senso generico, trattandosi di reato formale con evento di pericolo, immanente nella stessa condotta; viceversa nella violenza privata la minaccia (o la violenza fisica) funge da mezzo a fine e occorre che essa sia diretta a costringere taluno, come nella fattispecie in esame, a fare, tollerare od omettere qualcosa, con evento non di pericolo ma di danno, rappresentato, in caso di consumazione del reato, dal comportamento coartato del soggetto passivo, dipendente dall’atto di intimidazione (o di violenza) subito (cfr. ex plurimis, per la chiarezza del percorso argomentativo, Cass., sez. V, 2.3.1989, n. 9082, rv. 181716). Né va taciuto che in tutti i reati in cui la “violenza” o “la minaccia” sono elementi costitutivi, l’idoneità della “violenza” o della “minaccia” posta in essere dall’agente per coartare la volontà della vittima deve essere valutata, proprio come fatto dalla corte territoriale, con un giudizio “ex ante”, che tenga conto delle circostanze oggettive e soggettive del fatto e della condotta complessivamente posta in essere dal soggetto attivo del reato.