Corte dei Conti, Prima Sezione Centrale di Appello, sentenza n. 118 del 6 aprile 2021
Il danno alla concorrenza non può ritenersi sussistente “in re ipsa”, dovendosi provare, da parte dell’attore, che la deviazione dai parametri di una corretta azione amministrativa abbia comportato un effettivo danno patrimoniale all’Ente pubblico (ex multis, tra le recenti Sez. III n. 148 del 2018 e 228 del 2016; Sez. II n. 1081 del 2015), “provato attraverso la quantificazione della somma che l’Amministrazione avrebbe potuto risparmiare ove fosse stata regolarmente espletata la prevista procedura di gara” (App. Sicilia n. 147 del 2018).
Il danno alla concorrenza, infatti – rimandando alle copiose pronunce in merito (ex multis: Sez. I, 20 settembre 2018, n. 352; Sez. II n. 10 luglio 2018, n. 348) – si configura, in estrema sintesi, quando il mancato ricorso alle regole dell’evidenza pubblica determina una lesione al patrimonio pubblico configurata “quale percentuale di mancato ribasso, ingiustamente perduta, in misura percentuale, su ogni singolo (maggiore) pagamento che viene effettuato”.
È appena il caso di ricordare che il danno alla concorrenza – che, sicuramente scaturisce dall’omesso ricorso alle regole dell’evidenza pubblica, come la giurisprudenza di questa Corte ha più volte ribadito – va’, comunque, dimostrato.
E che detta violazione di legge abbia determinato una maggiore spendita di denaro pubblico, potrà essere provato, sì, con ogni idoneo mezzo, ma pur sempre di comparazione con i prezzi o con i ribassi conseguiti ad esito di gara per lavori o servizi dello stesso genere di quello in contestazione.
In tal senso, la granitica giurisprudenza di questa Corte che sta a significare il bisogno di maggior aderenza possibile dei criteri presi a riferimento, per misurare la configurazione del danno erariale, alla concreta situazione all’esame.